mercoledì 29 gennaio 2014

Anton Cechov, le opere

L'attività di Cechov scrittore, oltre al reportage sull'isola Sachalin, si svolse per intero nell'ambito del racconto e del teatro. Fin dal 1880, quando ancora frequentava la facoltà di medicina, Anton Cechov aveva preso  a pubblicare brevi racconti umoristici su varie riviste della capitale, tra le quali in particolare "Le schegge", diretta da N. A. Lejkin, cui contribuì assiduamente dal 1882 al 1887. Nel 1881 si era cimentato per la prima volta nella composizione drammatica, completando la stesura di un interminabile dramma in quattro atti, che sperò invano di far rappresentare al Teatro Malyi, e che venne pubblicato postumo e privo di titolo nel 1920. A partire dal 1884 Cechov prese a raccogliere in volume i racconti che era andato pubblicando con crescente successo: i primi due volumi - Le fiabe di Melpomene (1884) e Racconti variopinti ( 1886) - recano ancora lo pseudonimo di Antoscia Cechontè dietro il quale egli si era fino ad allora trincerato; ma già il terzo volume - Nel crepuscolo (1887), che gli varrà il Premio Puskin dell'Accademia Imperiale delle Scienze - reca il suo vero nome, così come lo recheranno l'unico romanzo che egli scrisse     ( Una caccia tragica), e da allora in poi tutta la copiosissima produzione di racconti che lo rese celebre sia presso il vasto pubblico che nei circoli letterari, e nel cui ambito vanno citati almeno - per gli echi autobiografici e per la rilevanza dei contenuti, oltre che per le qualità poetiche - La steppa( 1887), La corsia n. 6 (1892), La mia vita (1892), Una storia noiosa (1893), La casa col mezzanino (1895), La signora col cagnolino (1898), Il vescovo (1902).
Al teatro , dopo la non compiuta esperienza del 1881, Cechov tornò nel 185 con un atto unico - Sulla via maestra - tratto da un proprio racconto, ma bocciato dalla censura zarista che ne definì le vicende "lugubri e sordide", cui seguirono sette atti unici  (l'ultimo è del 1892, e i più noti sono Il canto del cigno e il monologo Il tabacco fa male!) e sei composizioni maggiori in quattro atti.
La carriera teatrale di Cechov fu la più contrastata di quella del narratore, e gli fu causa di molte delusioni che concorsero ad aggravare le sue condizioni di salute. Ivanov, il suo primo lavoro in quattro atti che giunse alle scene, cadde nel 1887 al teatro Kors di Mosca, e si impose solo in una nuova stesura, presentata al Tatro Aleksandrinskij di Pietroburgo l'anno seguente. Irrimediabile invece risultò l'insuccesso di Liesci (1889), dopo il quale Cechov esitò a lungo prima di riaccostarsi al teatro con opere di maggior respiro che non l'atto unico. Ci riprovò comunque nel  1896, presentando all'Aleksandrinskij di Pietroburgo Il gabbiano, letteralmente subissato dal pubblico che si aspettava un'opera comica e che non era riuscito a liberarsi dall'equivoco: violenta e amarissima la delusione di Cechov, che si ripropose di non scrivere più per il teatro. Ma nel 1898, quando Stanislavskij e Nemirovic- Dancenko fondarono il Teatro dell'Arte, Il gabbiano fu ripreso e il suo clamoroso successo - 17 dicembre 1898 - segnò la definitiva affermazione della drammaturgia cechoviana, determinò le sorti del Teatro d'Arte, e costituisce dunque una delle date più importanti e significative della storia del teatro moderno. Ancora al Teatro d'Arte di Stanislavskij e Nemirovic - Dancenko sono legati i tre ultimi capolavori di Cechov: Zio Vania, scritto nel 1897 e approdato al Teatro d'Arte nel 1899 dopo un battesimo in provincia, Le tre sorelle (1901) e Il giardino dei ciliegi (1904) che al  Teatro d'Arte ebbero invece la loro prima rappresentazione assoluta.
                                                  Cechov legge Il gabbiano agli attori del Teatro d'Arte di Mosca

La vita di Anton Cechov

Anton Pavlovic Cechov nacque il 29 gennaio del 1860 a Tanganròg, in Ucraina, da una famiglia di umili origini. Il nonno era stato un servo della gleba e aveva comprato la propria libertà versano al padrone 3500 rubli; il padre, aveva aperto nel 1857 a Tanganròg una piccola drogheria. L'infanzia di Cechov si svolse in un clima dominato dalla severità e dalle manie del padre, uomo dispotico, che non lesinava le punizioni fisiche, ma che non era privo di sensibilità e fantasia; suonatore dilettante di violino, appassionato di canto religioso, aveva costituito con i figli un piccolo complesso polifonico che convocava nelle ore più impensate e che fu per tutti in famiglia un vero e proprio tormento. Anton Cechov frequentò a Tanganròg  la scuola primaria e il ginnasio, fu assiduo al locale teatro di prosa, partecipò agli spettacoli allestiti dalla scuola interpretando la parte del governatore nell'Ispettore generale di Gogol. Nel 1876 la famiglia di Cechov si trasferì a Mosca, dove Anton Pavlovic la raggiunse nel 1879, una volta terminato il ginnasio. In quell'anno si iscrisse alla facoltà di medicina, donde uscì laureato nel 1884.
Assai pochi gli eventi esteriori della sua vita. Per qualche tempo, d'estate, frequentò con la famiglia la campagna di Voskresenk, non lontano da  Mosca, dove prestò servizio all'ospedale. Nell'aprile del 1890 intraprese un lungo viaggio fino all'isola di Sachalin, dove studiò le condizioni di vita dei deportati che vi si trovavano,  e di dove tornò a Mosca attraverso il Pacifico e l'Oceano Indiano; le sue impressioni di viaggio saranno raccolte nel 1895 in un volume - L'isola di Sachalin - che porterà all'attenzione della pubblica opinione il problema delle condizioni di vita nelle colonie penali. Nel 1891, nel 1894, nel 1897,e poi ancora nel 1900 e nel 1901 compì alcuni viaggi in Austria, in Italia, in Francia. Nel 1892 acquistò la tenuta di Melichovo, presso Mosca, dove rimarrà fino a che nel 1898 il pieno manifestarsi della tubercolosi non lo obbligherà a trasferirsi a Yalta, in Crimea. In quello stesso 1892 si adoperò attivamente contro la carestia e l'epidemia di colera che avevano colpito le regioni di Niznyi Novgorod e di Voronez. Nel 1901 sposò l'attrice Olga Knipper, conosciuta tre anni prima durante le prove del Gabbiano. Nel febbraio 1904, aggravandosi le sue condizioni, si recò nella stazione termale di Badenweiler, nella Selva Nera, dove morì il 15  luglio di quello stesso anno.


            I Čechov nel 1874: Anton è il secondo in piedi a sinistra. A destra, uno zio con la moglie e il figlio

martedì 28 gennaio 2014

L'odore dell'inverno

L'odore dell'inverno, di Anton Cechov

Il tempo dapprincipio fu bello,
calmo. Schiamazzavano i
tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo
faceva un brusio, come se 
soffiasse in una bottiglia vuota.
Passò a volo una beccaccia e
nell'aria con allegri rimbombi.
Ma quando nel bosco si fece 
buio e soffiò da oriente un vento
freddo e penetrante, tutto tacque.
Sulle pozzanghere si allungarono 
degli aghetti di ghiaccio.
Il bosco divenne squallido, solitario.
Si sentì l'odore dell'inverno.





A di città, progetto rosarnese di rigenerazione urbana

"A di città" è l’unico progetto  calabrese, realizzato a Rosarno,  in lizza per la seconda edizione del premio cheFARE,  evento promosso dall’ associazione doppiozero in collaborazione con una rete di fondazioni e imprese (da Ahref a Il Sole 24 ore, da Tafter a Fondazione Fitzcarraldo, Enel ) che mira a far emergere progetti innovativi nel settore culturale premiandoli con un contributo di 100.000 euro. 
Il progetto Adi città, nato grazie alla lodevole iniziativa di un gruppo di ragazzi rosarnesi, ha come finalità quella di trasformare la città in un laboratorio in cui realizzare nuovi spazi urbani, stimolare la comunità a crescere partecipando in maniera attiva  alla ricostruzione del proprio territorio attraverso il dialogo  con docenti universitari, architetti e urbanisti, collettivi di design, artisti) per riflettere ed attivarsi ai fini di  donare un nuovo volto alla città. Il cuore pulsante del progetto è costituito dai workshop, i Cantieri Aperti, il progetto di Arte urbana condivisa, laboratori di teatro – danza e di agricoltura solidale, attraverso i quali viene sperimentato anche un diverso modello economico nel territorio.
C’è tempo fino al 13 Marzo per votare il progetto “A di città” sulla piattaforma “Che  Fare?: http// www.che-fare.com/ progetti- approvati/ a – di – citta/


Coloro che vivono d'amore vivono d'eterno..

Dino Buzzati con la moglie Almerina Antoniazzi, di professione modella, sposata quasi in segreto l’8 dicembre 1966 nella chiesa milanese di San Gottardo in Corte: lei aveva 25 anni e lui 60.

«E’ stato un caso. Avevamo 35 anni di differenza, mi ha intenerito perché pensavo fosse gravemente malato. Era il 1962, il Corriere mi mandò a farmi fotografare davanti a una fontana dei giardini pubblici, quelli che oggi sono i Giardini Montanelli. La modella non si era presentata e così chiamarono me. E’ stata una folgorazione: camicia bianca e cravatta, l’ho riconosciuto subito. Dopo il lavoro mi ha invitato a colazione, mi ha chiesto il numero e il permesso di potermi telefonare. Gli ho detto sì. Ma non è nato subito l’amore. La magia credo sia accaduta a Torino, dopo qualche tempo (..) Ero arrivata di nascosto a Torinoalla presentazione di "Un amore". Dino era mezzo disperato. Non guardava nessuno, così sono scappata in albergo senza salutarlo. Mi sono presentata al giornale a Milano il mattino dopo. E’ lì che mi ha confessato di non essere malato, solo innamorato e sconvolto dal rapporto con Laide, il personaggio del libro. Anche se "l’amore è una malattia", diceva sempre. Delusa, gli ho chiesto di non cercarmi più. Fino a quando il mio amico Gianni Santuccio, attore con cui collaboravo, mi ha pregato di telefonargli. Cercavamo una commedia da recitare. L’ho chiamato. Dopo un quarto d’ora me lo sono ritrovato sotto casa, e da lì non mi ha più mollata».(Almerina Antoniazzi su Dino Buzzati)

La solitudine della sofferenza


"Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prendere su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l'amore è grande, e questo provoca la solitudine della
vita".
Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari










Azzurra Noemi Barbuto, Ali di burro

"Non so come sia successo. Ma credo che  a un certo punto in me anima e corpo si siano messi l'una contro l'altro. La mia anima voleva prendere il sopravvento, emergere, uscire fuori dallo stomaco e farsi sentire, e l'unico modo che aveva per farlo era quello di distruggere il corpo, consumandolo. Ma il dolore del corpo è il dolore dell'anima e viceversa, perché essi sono come due facce della stessa medaglia, come due lembi di seta cuciti con lo stesso filo l'uno sull'altro. Io avrei voluto che il mio corpo fosse come la mia anima. Allora io sarei stata bellissima, leggera, delicata, pura. Così pura da far sorgere negli altri la paura di contaminarmi con un solo sguardo. Così nessuno mi avrebbe guardata, se non per ammirare quella purezza perfetta e lucente e, guardandomi, si sarebbe sentito e sarebbe stato migliore, cioè più buono. Allora io sarei stata come uno di quegli oggetti delicati che esistono solo per la loro rara bellezza e che ispirano cose belle ed elevate a chi li osserva, quegli oggetti protetti, chiusi nelle vetrine, quelle cose preziose e fragili, di vetro soffiato o di porcellana, che noi guardiamo incantati al di là di un vetro quando siamo piccoli, mentre qualcuno ci dice con tono dolce e fermo :"si guarda ma non si tocca".
Io stessa non volevo appartenere a questo mondo vuoto e disperato, troppo duro e troppo pesante per tutta quella leggerezza che mi sentivo dentro, nello stomaco.
Se il mondo era un macigno, io sarei stata una piuma che soavemente scende giù ballerina e non si posa".
- Azzurra Noemi Barbuto, Ali di burro