giovedì 15 giugno 2023

Umberto Galimberti

 I giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che caratterizzano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.  


Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso. Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell’analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome 


E del resto che nome dare a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell’inarticolato all’altezza del quale c’è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione come stato d’animo senza tempo, governato da quell’ospite inquietante che Nietzsche definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi perdono ogni valore».  


E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o meno sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore insensato. Un po’ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po’ di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica di quell’individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che – stante l’inaridimento di tutti i legami affettivi – non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro. 

Umberto Galimberti



Oriana Fallaci

 E quando mi presentai alla prova scritta, il tema di italiano, non ricordavo neanche chi fosse Dante Alighieri. I miei piedi erano ghiacci, lo stomaco contratto mi rimandava in bocca il sapore dello zabaglione che la mamma mi aveva imposto per 《tirarmi su》, l'angoscia mi  strozzava. Ma poi ci  comunicarono il tema: 《il concetto di patria dalla polis greca ad oggi》. E fu peggio che dar fuoco alle polveri delle mie infantili rivolte, delle mie infantili utopie. Il freddo sparì, insieme al sapore di zabaglione, l' angoscia dileguo'.

Brandii la stilografica, mi gettai come un lupo ringhioso sul foglio protocollo, e questo (più o meno) è il riassunto di ciò che scrissi per otto colonne piene.


<<Patria, che vuol dire patria. La patria di chi? La patria degli schiavi e dei cittadini che possedevan gli schiavi? La patria di Meleto o la patria di Socrate messo a morte con le leggi della patria? La patria degli ateniesi o la patria degli spartani che parlavano la stessa lingua degli ateniesi però si squartavano tra loro come molti secoli dopo avrebbero fatto i fiorentini e i senesi, i veneziani e i genovesi, i fascisti e gli antifascisti? E' da quando ho imparato a leggere che mi si parla di patria: amor patrio, orgoglio patrio, patria bandiera. E ancora non ho capito cosa vuol dire. Anche Mussolini parlava di patria, anche i repubblichini che nel marzo del '44 arrestarono mio padre e fracassandolo di botte gli gridavano se-non-confessi-domattina-ti-fuciliamo-al-Parterre. Anche Hitler. Anche Vittorio Emanuele III e Badoglio. Era patria la loro o la mia? E per i francesi la patria qual è? Quella di De Gaulle o quella di Pétain? E per i russi del '17 qual era? Quella di Lenin o quella dello zar? Io ne ho abbastanza di questa parola in nome della quale si scanna e si muore. La mia patria è il mondo e non mi riconosco nei costumi e nella lingua e nei confini dentro cui il caso mi ha fatto nascere. Confini che cambiano a seconda di chi vince o chi perde come in Istria dove fino a ieri la patria si chiamava Italia sicché bisognava uccidere ed essere uccisi per l'Italia ma ora si chiama Iugoslavia sicché bisogna uccidere ed essere uccisi per la Iugoslavia. Invece di darci il tema sul concetto di questa patria che cambia come le stagioni, perché non ci date un tema sul concetto di libertà. La libertà non cambia a seconda di chi vince e chi perde. E tutti sanno cosa vuol dire. Vuol dire dignità, rispetto di sé stessi e degli altri, rifiuto dell'oppressione. Ce l'hanno ricordato le creature che sono morte in carcere, sotto le torture, nei campo di sterminio, dinnanzi ai plotoni di esecuzione gridando viva la libertà, non viva la patria...>>.

Successe un finimondo. Alcuni dei professori che componevano la commissione esaminatrice sostenevano che ero pazza e immatura, altri che ero savia e insolitamente matura. Vinsero i secondi e mi dettero dieci meno.


Oriana Fallaci