lunedì 10 agosto 2020

Il desiderio secondo Bauman

 “Il desiderio è la brama di consumare.


Di assorbire, divorare, ingerire e digerire – di annichilire. 


Per contro, l’amore è il desiderio di prendersi cura e di preservare l’oggetto della propria cura. 


Un impulso centrifugo, a differenza del desiderio che è centripeto: un impulso a espandersi, a fuoriuscire, a protendersi all’esterno. 


Se il desiderio vuole consumare, l’amore vuole possedere.


Forse parlare di desiderio, oggi, è eccessivo. 


Come per lo shopping: oggigiorno chi va per negozi non compra per soddisfare un desiderio, ma semplicemente per togliersi una voglia. 


Ci vuole tempo per seminare, coltivare e nutrire il desiderio. 


Il desiderio ha bisogno di tempo per germogliare, crescere e maturare…

Quando è pilotata dalla voglia, la relazione tra due persone segue il modello dello shopping. 


Al pari di altri prodotti di consumo, è fatta per essere consumata sul posto ed essere usata una sola volta. 


Innanzi tutto e perlopiù, la sua essenza è quella di potersene disfare senza problemi.”


- Zygmunt Bauman, Amore liquido



Liliana Segre

 Sono stata una clandestina in cerca di rifugio in Svizzera, una richiedente asilo, asilo che mi è stato rifiutato. Mai potrei essere indifferente ai migranti d’oggi.

Tornano quei pregiudizi, quella caccia all’uomo che io ho vissuto come vittima delle leggi razziali.

Questa istigazione all’odio e l’insistenza sulle differenze sono un veicolo molto pericoloso per l’Italia.

Liliana Segre


Lella Costa

 Forse, ogni tanto, bisognerebbe proprio che qualcuno dei bambini che conosciamo – qualche maschietto bello sveglio di sette anni e sei mesi, qualche bambina curiosa e coraggiosa con gli occhi sempre spalancati sul mondo, stufi marci di sentirsi chiedere in continuazione:

“Che cosa vuoi fare da grande? Dimmi che cosa vuoi fare da grande” – ci prendesse in disparte, e senza tanti giri di parole, guardandoci dritto negli occhi ci chiedesse:

“Ma tu, piuttosto tu, si può sapere che cosa hai fatto tu, da grande?

Che cosa ne è stato di quel senso di infinito che ti prendeva ogni anno, alla fine della scuola, davanti alla distesa sterminata di un’intera estate?

Che cosa ne hai fatto dei sogni, ma quelli veri, quelli che contano: gli specchi da attraversare, i mondi alla rovescia, i paesi delle meraviglie, i rifugi segreti, gli amici immaginari, le carte magiche, i voli, tutte quelle cose che ti stanno dentro, e ti nutrono l’anima, e ti fanno sentire voluto bene da te…

Che cosa ne hai fatto, tu, del tuo tempo?”.

Lella Costa



Gino Strada

 Quando leggo in questi giorni alcuni commenti sulla “emergenza migranti” mi vengono i brividi: non mi interessano (se esistono) posizioni di destra o di sinistra, il “bisognerebbe fare…” questo o quello. Ci troviamo, io come tutti i cittadini della “civilissima Europa”, di fronte a una situazione chiara: c’è una massa enorme di persone povere, disperate (oh certo tra loro ci sarà anche qualche delinquente! Ma tra noi non ce ne sono?) che scappa dalla guerra e dalla povertà, dai regimi che riducono i popoli alla fame. E’ così difficile capire che sono queste le spinte principali alla migrazione di parti di popolazioni di Paesi diversi? Possiamo darci spiegazioni, ciascuno la sua, del perché questo succeda. Ma alla fine un solo fatto è certo, una sola verità è inconfutabile: ci troviamo di fronte a centinaia di migliaia di persone disperate che chiedono aiuto.

E bisogna fare una scelta, da esseri umani di fronte ad altri esseri umani. Qual è la risposta più “umana”? Ce lo ha insegnato qualcuno dal nome sconosciuto, forse un migrante, che ha esposto un cartello di protesta alla frontiera (a proposito, non erano state abolite in Europa?) di Ventimiglia “Noi vogliamo solo passare per raggiungere un posto dove ci sia umanità". Al posto loro credo e spero che noi avremmo fatto la stessa richiesta, e avremmo sperato di incontrare tanti disposti ad aiutarci nella ricerca di una vita più ricca di umanità, magari preparandoci “il mangiare per il viaggio”, come si è sempre usato da noi, tra le persone per bene.

Gino Strada


Paura Liquida

 

La cosa che suscita più spavento è l’ubiquità delle paure; esse possono venir fuori da qualsiasi angolo o fessura della nostra casa o del nostro pianeta.

Dal buio delle strade o dai bagliori degli schermi televisivi… Dal posto di lavoro o dalla metropolitana che prendiamo per raggiungerlo o per tornare a casa. Da coloro che conosciamo o da qualcuno di cui non ci eravamo nemmeno accorti. Da qualcosa che abbiamo ingerito o con cui il nostro corpo è venuto in contatto…

La paura più terribile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente.

“Paura” è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla.

(Zygmunt Bauman, Paura liquida)


Italo Calvino

 "Tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi".

Italo Calvino - Il sentiero dei nidi di ragno


Umberto Galimberti

 «Quei camion in processione provocano due riflessioni immediate. La prima è che siamo in una situazione eccezionale, e questo è un monito per tutti coloro che anche se sono affetti da Covid si spostano con disinvoltura, come mostrano i tracciati dei cellulari. La seconda è un interrogativo: perché noi siamo ancora vivi? Ce lo si chiede per il solo fatto che molta gente è morta perché gli ospedali non hanno potuto accogliere tutti. Si sono dovute fare delle scelte. Alcune morti probabilmente erano evitabili. Ma perché non abbiamo pensato a tutto questo quando riducevamo i finanziamenti alla sanità pubblica? Non abbiamo fatto alcuna riflessione quando portavamo in tribunale per mille cause quegli stessi medici che adesso chiamiamo eroi?

Bisognava farlo di giorno, in modo che fosse chiaro, che la gente si rendesse conto della gravità della situazione. Ma siccome la cultura occidentale ha rimosso la morte, si è ritenuto opportuno di cercare che la gente non vedesse le bare. Che non vedesse la morte nella catastrofe generalizzata. Non abbiamo più capacità critiche per comprendere la morte, data la nostra rimozione.

Le generazioni precedenti avevano la morte sotto i propri occhi. I padri vedevano morire i figli e viceversa. C’erano guerre, pestilenze, carestie. Ora invece quando qualcuno sta male lo si affida all’ospedale, cioè a una struttura tecnica, e quando lo si va a trovare (non è il caso ovviamente del coronavirus) non abbiamo neanche le parole giuste per dirgli qualcosa di significativo. Una pacca sulle spalle, “vedrai che ce la farai”: frasi idiote, che il paziente riceve con uno sguardo di commiserazione. Soprattutto se è in fin di vita. Non abbiamo più le parole con cui comunicare con coloro che se ne vanno, non sappiamo più che cosa bisogna dire nella maniera giusta quando si avvicina la fine della vita, perché con il mito della giovinezza e della salute non sappiamo più che significato attribuire alla morte. Ecco perché quei camion mandati in giro di notte: per non turbare la rimozione collettiva».

Umberto Galimberti