La cosa più importante del cinema italiano è la sua doppia identità, una condizione che poi rispecchia perfettamente la cultura del nostro paese, formatasi nel corso dei secoli su una scala diversa da quella su cui si sono formate, ad esempio, la cultura e la lingua della Francia, della Russia, dell’Inghilterra, seguendo e assecondando processi di unità nazionale molto lenti, ma molto profondi. L’immaginario italiano, che si è costituito soprattutto nel Medioevo e nel Rinascimento, è legato a tematiche, ideologie e raffigurazioni non nazionali: la Chiesa, l’Impero, i Comuni, le signorie che nessun principe è riuscito a immettere in un disegno nazionale. Voglio dire che l’identità culturale italiana non si fonda solo su Dante, Manzoni e Verga, ma sull’universalismo rinascimentale, su quell’immenso repertorio di immagini e parole creato nei tanti secoli in cui l’Italia non fu nazione ma crocevia di tutta la civiltà occidentale. In questo senso, nessun’altra cinematografia ha saputo – come quella italiana – proporsi come sovranazionale, fino a identificarsi con altre culture. Visconti e i suoi sceneggiatori hanno fatto grande riferimento alla cultura tedesca e mitteleuropea; Antonioni ha girato film come Blow Up, Zabriskie Point e Professione Reporter; Gillo Pontecorvo ha girato La battaglia di Algeri e Queimada; Bernardo Bertolucci ha realizzato delle straordinarie mimetizzazioni culturali con L’ultimo imperatore e Il piccolo Budda; e andando indietro non possiamo dimenticare Germania anno zero di Rossellini, che fa parte a tutti gli effetti della storia del cinema tedesco del dopoguerra, e più di recente La presa del potere di Luigi XIV; e si potrebbe continuare ancora con Ferreri, Scola, Zeffirelli, la Cavani, Leone. A confermarmi in quest’idea è stato, curiosamente, proprio Sergio Leone, quando lo intervistai per un mio lavoro sulla storia del cinema italiano. Gli chiesi: «Come hai potuto identificarti così bene con l’epica del Far West? Quanto di più lontano dalla realtà in cui sei vissuto e ti sei formato». E lui con molto candore, e anche un po’ stupito, mi rispose: «E Ariosto, allora? Lui non si identificava con la chanson de geste? Non parlava dei mori e dei Pirenei?». Lì per lì, la frase mi fece venire un brivido, mi sembrava tradire una certa presunzione, ma poi ripensandoci mi sono reso conto che Leone aveva perfettamente ragione. Si tratta davvero di una peculiarità italiana, perché ad esempio i francesi, tranne rare eccezioni, hanno sempre fallito quando hanno cercato di identificarsi con altre culture, per non dire degli americani, che quando ambientano i loro film in Italia non riescono a sfuggire agli stereotipi e alle macchiette. Riescono ad essere credibili, forse, solo i registi di origine ebraica o slava, e non è un caso viste le loro radici culturali multietniche. Quello che voglio dire con questo discorso è che la doppia identità non è sinonimo di ambiguità, può essere invece, com’è stato in molti casi del cinema italiano, una straordinaria opportunità da mettere a frutto.
-Carlo Lizzani
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