Da qualche parte nell'Universo esiste un mondo non visibile agli occhi in cui si aggirano sagome vibranti di luce. Sono le anime degli Innamorati Eterni e palpitano a coppie, trovando l'una nell'altra le ragioni del proprio splendore.
- Chiara Gamberale e Massimo Gramellini, Avrò cura di te
mercoledì 31 dicembre 2014
venerdì 26 dicembre 2014
Storie d'amore
Anaïs, sei stata tu a dare il via allo scorrere della linfa. Non sono più responsabile di ciò che dico e che faccio. Ascolta, riceverai la lettera e forse ne resterai delusa. È un così piccolo frammento di quello che avrei da dirti, e ancora mi manca il coraggio che dovrei avere. Perché, accidenti, perché? Tu mi hai dato il permesso. Ma te l’aspetti tutto quello che ho da dirti? Mi hai letto tutti i tuoi appunti – sì, sì c’è differenza fra ciò che dico e ciò che faccio, diciamo che c’era. Anaïs, vengo di continuo interrotto. Cercherò di continuare a casa. La gente intorno si incuriosisce del fatto che molto spesso io sia qui intento a scrivere. Pensano che io sia uno che va in cerca di punizioni. Mi chiedono perché non me ne vado a casa. Anaïs, potrei restare qui tutta la notte a scriverti. Ti ho continuamente davanti agli occhi, il capo chino, le lunghe ciglia abbassate. E mi sento umilissimo. Non capisco perché tu abbia dovuto scegliere me, non riesco a venirne a capo. Ma non ho voglia di andare troppo a fondo. Mi hai messo il fuoco dentro e adesso non potrò più essere quello che ero, semplicemente tuo amico. Ma sono mai stato soltanto tale? Ho l’impressione che fin dal primissimo inizio, da quando ho aperto l’uscio e mi hai porto sorridendo la mano, io sono rimasto preso, ero tuo. Anche June l’ha avvertito. Ha detto subito che eri innamorata di me o che io lo ero di te. Ma per quanto mi riguardava non ignoravo che fosse amore. Parlavo di te con calore, senza riserve. Henry
Henry Miller a Anaïs Nin
Henry Miller a Anaïs Nin
Renato Guttuso
"La pittura è il mio mestiere. Cioè è il mio mestiere ed il mio modo di avere rapporto con il mondo. Vorrei essere appassionato e semplice, audace e non esagerato. Vorrei arrivare alla totale libertà in arte, libertà che, come nella vita, consiste nella verità".
Renato Guttuso
mercoledì 24 dicembre 2014
Natale - Erri De Luca
Natale - Erri De Luca
Nascerà in una stiva tra viaggiatori clandestini.
Lo scalderà il vapore della sala macchine.
Lo cullerà il rollio del mare di traverso.
Sua madre imbarcata per tentare uno scampo o una
fortuna,
suo padre l’angelo di un’ora,
molte paternità bastano a questo.
In terraferma l’avrebbero deposto
nel cassonetto di nettezza urbana.
Staccheranno coi denti la corda d’ombelico.
Lo getteranno al mare, alla misericordia.
Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Lo possiamo aspettare, abbracciare no.
Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Non c’è mondo
per lui.
Niente della sua vita è una parabola.
Nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,
poi i chiodi nella carne.
Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei
che non hanno portato manco un vestito e un nome
i marinai li chiamano Gesù.
Perché nascono in viaggio, senza arrivo.
Nasce nelle stive dei clandestini,
resta meno di un’ora di dicembre.
Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.
Nasce in mezzo a una strage di bambini.
Nasce per tradizione, per necessità,
con la stessa pazienza anniversaria.
Però non sopravvive più, non vuole.
Perché vivere ha già vissuto, e dire ha detto.
Non può togliere o aggiungere una spina ai rovi delle
tempie.
Sta con quelli che vivono il tempo di nascere.
Va con quelli che durano un’ora.
Lo scalderà il vapore della sala macchine.
Lo cullerà il rollio del mare di traverso.
Sua madre imbarcata per tentare uno scampo o una
fortuna,
suo padre l’angelo di un’ora,
molte paternità bastano a questo.
In terraferma l’avrebbero deposto
nel cassonetto di nettezza urbana.
Staccheranno coi denti la corda d’ombelico.
Lo getteranno al mare, alla misericordia.
Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Lo possiamo aspettare, abbracciare no.
Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Non c’è mondo
per lui.
Niente della sua vita è una parabola.
Nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,
poi i chiodi nella carne.
Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei
che non hanno portato manco un vestito e un nome
i marinai li chiamano Gesù.
Perché nascono in viaggio, senza arrivo.
Nasce nelle stive dei clandestini,
resta meno di un’ora di dicembre.
Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.
Nasce in mezzo a una strage di bambini.
Nasce per tradizione, per necessità,
con la stessa pazienza anniversaria.
Però non sopravvive più, non vuole.
Perché vivere ha già vissuto, e dire ha detto.
Non può togliere o aggiungere una spina ai rovi delle
tempie.
Sta con quelli che vivono il tempo di nascere.
Va con quelli che durano un’ora.
Erri De Luca - Opera sull’acqua - Einaud
Natale degli spalatori di neve, Jacques Prevert
Quando cade a Natale)
I nostri camini sono vuoti
le nostre tasche rivoltate
ohè ohè ohè
i nostri camini sono vuoti
le nostre scarpe bucate
ohè ohè ohè
e i nostri figli lividi
sono a pancia vuota
ohè ohè ohè
Eppure è Natale
Natale che bisogna festeggiare
Festeggiamo festeggiamo il Natale
lo si fa ogni anno
Ohè la vita è bella
Ohè felice Natale
Ma ecco la neve che cade
che cade così dall'alto
Si farà certo male
cadendo così dall'alto
ohè ohè èho
Povera neve novella
corriamo corriamo verso quella
corriamo con le nostre pale
corriamo a raccoglierla
perchè questo è il nostro mestiere
ohè ohè ohè
Graziosa neve novella
tu che arrivi dal cielo
dicci dicci o bella
ohè ohè ohè
Quando a Natale
cadranno di lassù
i tacchini di Natale
con i loro piccoli
ohè ohè èho!
Una lettera- racconto di Elsa Morante
Roma 21 dicembre 1971
Caro Goffredo
con questa mia lettera ti mando i miei auguri di Natale e Anno Nuovo, e ti racconto, per l’occasione, un fatto vero (vero almeno in parte, e fino a un certo punto).
Avvenne più di 50 anni fa, nel periodo delle feste (credo che fossero proprio le feste natalizie). In un collegio di preti (o frati) una diecina di ragazzetti erano costretti, per motivi di famiglia, a passare le feste dentro. Il pranzo della festa principale (giorno di Natale) fu – relativamente – lauto. la lista era: Fettuccine – Abbacchio con patate – 1 pera. Alla fine viene però portasta a tavola una magnifica torta (zuppa inglese) del diametro di almeno 45 cm.
Si alza il Priore e dice: “Figlioli, in questo santo giorno vi invito a pensare a tanti poveri bambini che non hanno nemmeno il pane: e nel pensiero di questi poverelli vi invito a offrire un fioretto a Gesù. A ciascuno dei presenti qui raccolti a questa tavola tocca, o toccherebbe, una fetta della torta che qui vedete. Ebbene, ecco la mia proposta: rinunciare alla propria fetta di torta, offrendola come fioretto a Gesù. Tutti i bambini buoni che sono d’accordo su questo fioretto, adesso si alzeranno da tavola. Va bene?”.
Tutti rispondono compunti: "Sì, padre". E si alzano. Tutti meno uno, un certo Egidio che non risponde e non si alza. A trattenerlo sulla sedia è una sensazione strana: gli sembra che quel fioretto puzzi.
“Egidio! Non hai sentito? E perché tu non ti alzi? Tutti i bambini buoni si sono alzati. E tu?”.
Egidio si fa rosso, e non trova altra risposta: “Io sono cattivo”.
“Ah”, fa il Priore amareggiatissimo. E sia pure controvoglia, è costretto a tagliare una fetta di torta e metterla nel piatto di Egidio. Il quale rimane solo a tavola con la sua fetta di zuppa inglese.
Il peggio è che, tra tutti i dolci, proprio la zuppa inglese non gli piace. Ne mangia un pezzetto, ma non gli va. In quel momento vede, dietro la vetrata del refettorio, un cagnaccio di nessuno che fissa il suo piatto con ingordigia. Tanto per finirla, gli dà il resto della sua torta. Il cane l’ha divorata in un lampo.
Exit Egidio. Rientra il Priore. E guarda quella torta non più intera, cioè mancante di una fetta, che gli urta doppiamente i nervi. Primo motivo: perché è simbolo materiale che nel suo gregge c’è una pecorella smarrita, un individualista anzi un aristocratico e, diciamolo pure, un reazionario: EGIDIO! E secondo motivo: per ragioni politiche, giacché, come spesso succede, dietro a quel fioretto collettivo si nascondeva anche una politica; cioè il Priore si riprometteva di offrire quella torta, rinunciata dai ragazzi, alla potentissima, grassissima e ghiottissima badessa di un convento del circondario, la quale giustamente gliene avrebbe reso merito…
Ma adesso che la torta non è più intera, mancando di uno spicchio, decentemente non può offrirgliela più. E quanto a lui stesso, per colmo di rabbia, lui soffre di diabete… anzi, alle altre sue rabbie, si aggiungeva un po’ di invidia per Egidio che col suo stomacuccio fresco, ha gustato il sapore dello zucchero… In poche parole: quella torta gli è divenuta odiosa al punto che quasi quasi la butterebbe nel cesso!
In quel momento il caso vuole che passi di là il piccolo spazzacamino del convento (1), che viene in questo giorno a riscuotere i propri crediti (il Priore è di solito un tardo pagatore) i quali ammontano in tutto (lavoro di tutto l’inverno) a L.2,45 (si tratta di 50 anni fa). Seccato, il Priore gli molla, all’uso solito, un acconto di L.0,50 dicendo: "Ripassa quest’altr’anno per il resto". In quel momento gli ricasca sotto gli occhi la maledetta torta, e per liberarsene, la mette tra le braccia del piccolo spazzacamino: “To’, portatela via e togliti subito dai piedi”. Lo spazzacamino scappa via, e se la va a mangiare con i suoi compagnucci spazzacamini. Fine.
MORALE:
Le vie del signore sono infinite
oppure
Tutte le strade portano a Roma.
Non so. La storia, a ogni modo è (fino ad un certo punto) vera. Non ti ho raccontato una balla. Avvenne più di 50 anni fa (esattamente, se non mi sbaglio, 53 o 54 anni fa).
(1) N.B. (al posto dello spazzacamino, forse c’era il garzone del lattaio – o altro sotto-proletario minorenne)
Elsa
Caro Goffredo
con questa mia lettera ti mando i miei auguri di Natale e Anno Nuovo, e ti racconto, per l’occasione, un fatto vero (vero almeno in parte, e fino a un certo punto).
Avvenne più di 50 anni fa, nel periodo delle feste (credo che fossero proprio le feste natalizie). In un collegio di preti (o frati) una diecina di ragazzetti erano costretti, per motivi di famiglia, a passare le feste dentro. Il pranzo della festa principale (giorno di Natale) fu – relativamente – lauto. la lista era: Fettuccine – Abbacchio con patate – 1 pera. Alla fine viene però portasta a tavola una magnifica torta (zuppa inglese) del diametro di almeno 45 cm.
Si alza il Priore e dice: “Figlioli, in questo santo giorno vi invito a pensare a tanti poveri bambini che non hanno nemmeno il pane: e nel pensiero di questi poverelli vi invito a offrire un fioretto a Gesù. A ciascuno dei presenti qui raccolti a questa tavola tocca, o toccherebbe, una fetta della torta che qui vedete. Ebbene, ecco la mia proposta: rinunciare alla propria fetta di torta, offrendola come fioretto a Gesù. Tutti i bambini buoni che sono d’accordo su questo fioretto, adesso si alzeranno da tavola. Va bene?”.
Tutti rispondono compunti: "Sì, padre". E si alzano. Tutti meno uno, un certo Egidio che non risponde e non si alza. A trattenerlo sulla sedia è una sensazione strana: gli sembra che quel fioretto puzzi.
“Egidio! Non hai sentito? E perché tu non ti alzi? Tutti i bambini buoni si sono alzati. E tu?”.
Egidio si fa rosso, e non trova altra risposta: “Io sono cattivo”.
“Ah”, fa il Priore amareggiatissimo. E sia pure controvoglia, è costretto a tagliare una fetta di torta e metterla nel piatto di Egidio. Il quale rimane solo a tavola con la sua fetta di zuppa inglese.
Il peggio è che, tra tutti i dolci, proprio la zuppa inglese non gli piace. Ne mangia un pezzetto, ma non gli va. In quel momento vede, dietro la vetrata del refettorio, un cagnaccio di nessuno che fissa il suo piatto con ingordigia. Tanto per finirla, gli dà il resto della sua torta. Il cane l’ha divorata in un lampo.
Exit Egidio. Rientra il Priore. E guarda quella torta non più intera, cioè mancante di una fetta, che gli urta doppiamente i nervi. Primo motivo: perché è simbolo materiale che nel suo gregge c’è una pecorella smarrita, un individualista anzi un aristocratico e, diciamolo pure, un reazionario: EGIDIO! E secondo motivo: per ragioni politiche, giacché, come spesso succede, dietro a quel fioretto collettivo si nascondeva anche una politica; cioè il Priore si riprometteva di offrire quella torta, rinunciata dai ragazzi, alla potentissima, grassissima e ghiottissima badessa di un convento del circondario, la quale giustamente gliene avrebbe reso merito…
Ma adesso che la torta non è più intera, mancando di uno spicchio, decentemente non può offrirgliela più. E quanto a lui stesso, per colmo di rabbia, lui soffre di diabete… anzi, alle altre sue rabbie, si aggiungeva un po’ di invidia per Egidio che col suo stomacuccio fresco, ha gustato il sapore dello zucchero… In poche parole: quella torta gli è divenuta odiosa al punto che quasi quasi la butterebbe nel cesso!
In quel momento il caso vuole che passi di là il piccolo spazzacamino del convento (1), che viene in questo giorno a riscuotere i propri crediti (il Priore è di solito un tardo pagatore) i quali ammontano in tutto (lavoro di tutto l’inverno) a L.2,45 (si tratta di 50 anni fa). Seccato, il Priore gli molla, all’uso solito, un acconto di L.0,50 dicendo: "Ripassa quest’altr’anno per il resto". In quel momento gli ricasca sotto gli occhi la maledetta torta, e per liberarsene, la mette tra le braccia del piccolo spazzacamino: “To’, portatela via e togliti subito dai piedi”. Lo spazzacamino scappa via, e se la va a mangiare con i suoi compagnucci spazzacamini. Fine.
MORALE:
Le vie del signore sono infinite
oppure
Tutte le strade portano a Roma.
Non so. La storia, a ogni modo è (fino ad un certo punto) vera. Non ti ho raccontato una balla. Avvenne più di 50 anni fa (esattamente, se non mi sbaglio, 53 o 54 anni fa).
(1) N.B. (al posto dello spazzacamino, forse c’era il garzone del lattaio – o altro sotto-proletario minorenne)
Elsa
"I figli di Babbo Natale", racconto di Italo Calvino
Non c’è epoca dell’anno più gentile e buona, per il mondo dell’industria e del commercio, che il Natale e le settimane precedenti. Sale dalle vie il tremulo suono delle zampogne; e le società anonime, fino a ieri freddamente intente a calcolare fatturato e dividendi, aprono il cuore agli affetti e al sorriso.
L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino danno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contesed’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale. L’idea suscitò l’approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un’acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni.
Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell’Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l’idea: l’Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l’Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l’Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto – come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta. In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra «tredicesima mensilità » e «ore straordinarie ».
Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio.
Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: – Ehi, tu! – disse a Marcovaldo. – Prova un po’ come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno. Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d’agrifoglio. La barba d’ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall’aria. La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini.
«Dapprincipio, – pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! »
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. - Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. – Mah… Non vedete come sono vestito?
- E come vuoi essere vestito? – disse Pietruccio. – Da Babbo Natale, no?
- E m’avete riconosciuto subito?
- Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
- E il cognato della portinaia!
- E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
- E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
- Tutti vestiti da Babbo Natale? – chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
- Certo, tal quale come te, uffa, – risposero i bambini, – da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, – e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia.
I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po’ ci avevano fatto l’abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S’erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio.
- Si può sapere cosa state complottando? – chiese Marcovaldo.
- Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
- Regali per chi?
- Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
- Ma chi ve l’ha detto?
- C’è nel libro di lettura.
Marcovaldo stava per dire: «Siete voi i bambini poveri!», ma durante quella settimana s’era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare:
- Bambini poveri non ne esistono più!
S’alzò Michelino e chiese: – È per questo, papà, che non ci porti regali?
Marcovaldo si sentí stringere il cuore.
- Ora devo guadagnare degli straordinari, – disse in fretta, – e poi ve li porto.
- Li guadagni come? – chiese Filippetto.
- Portando dei regali, – fece Marcovaldo.
- A noi?
- No, ad altri.
- Perché non a noi? Faresti prima..
Marcovaldo cercò di spiegare: – Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
- No.
- Pazienza. – Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d’esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne.
- Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, – disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
- Andiamo, forse troverò un bambino povero, – disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all’automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un’aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell’enorme macchinario delle Feste.
E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all’altro segnato sull’elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
- La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante.
- Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
- La Sbav augura…
- Be’, portate qua, – e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d’occhi, andava dietro al padre.
La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
- Gianfranco, su, Gianfranco, – disse la governante, – hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
- Trecentododici, – sospirò il bambino – senz’alzare gli occhi dal libro. – Metta lí.
- È il trecentododicesimo regalo che arriva, – disse la governante. – Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
- Papà, quel bambino è un bambino povero? – chiese Michelino.
Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s’affrettò a protestare:
- Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell’Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator…
S’interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
«Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l’ha scambiato per me e gli è andato dietro… » Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po’ in pensiero e non vedeva l’ora di tornare a casa.
A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
- Di’ un po’, tu: dove t’eri cacciato?
- A casa, a prendere i regali… Si, i regali per quel bambino povero…
- Eh! Chi?
- Quello che se ne stava cosi triste.. – quello della villa con l’albero di Natale…
- A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
- Oh, li avevamo preparati bene… tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
- Figuriamoci! – disse Marcovaldo. – Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
- Sí, sí dei nostri… È corso subito a strappare la carta per vedere cos’erano…
- E cos’erano?
- Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno…
- E lui?
- Saltava dalla gioia! L’ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
- Come?
- Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo…
- Cos’era?
- Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza… Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell’albero di Natale. Poi è passato ai lampadari…
- Basta, basta, non voglio più sentire! E… il terzo regalo?
- Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l’ha fatto più felice. Diceva: « I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! » Ha cominciato ad accenderli, e…
- E…?
- …ha dato fuoco a tutto!
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. – Sono rovinato!
L’indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell’Ufficio Commerciale.
- Alt! – gli dissero, – scaricare tutto; subito!
«Ci siamo! » si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
- Presto! Bisogna sostituire i pacchi! – dissero i Capiufficio. – L’Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
- Cosi tutt’a un tratto… – commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima…
- È stata una scoperta improvvisa del presidente, – spiegò un altro. – Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi…
- Quel che più conta, – aggiunse il terzo, – è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato… Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d’un bambino… Il presidente dell’Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell’entusiasmo…
- Ma questo bambino, – chiese Marcovaldo con un filo di voce, – ha distrutto veramente molta roba?
- Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata…
Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un’ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d’un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s’udiva l’ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Uscì un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un’impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C’era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po’ più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.
L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse; al di là dei vetri appannati, sui marciapiedi ricoperti da una crosta di gelo s’inoltrano gli zampognari, discesi da buie misteriose montagne, sostano ai crocicchi del centro, un po’ abbagliati dalle troppe luci, dalle vetrine troppo adorne, e a capo chino danno fiato ai loro strumenti; a quel suono tra gli uomini d’affari le grevi contesed’interessi si placano e lasciano il posto ad una nuova gara: a chi presenta nel modo più grazioso il dono più cospicuo e originale.
Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale. L’idea suscitò l’approvazione unanime dei dirigenti. Fu comprata un’acconciatura da Babbo Natale completa: barba bianca, berretto e pastrano rossi bordati di pelliccia, stivaloni.
Si cominciò a provare a quale dei fattorini andava meglio, ma uno era troppo basso di statura e la barba gli toccava per terra, uno era troppo robusto e non gli entrava il cappotto, un altro troppo giovane, un altro invece troppo vecchio e non valeva la pena di truccarlo.
Mentre il capo dell’Ufficio Personale faceva chiamare altri possibili Babbi Natali dai vari reparti, i dirigenti radunati cercavano di sviluppare l’idea: l’Ufficio Relazioni Umane voleva che anche il pacco-strenna alle maestranze fosse consegnato da Babbo Natale in una cerimonia collettiva; l’Ufficio Commerciale voleva fargli fare anche un giro dei negozi; l’Ufficio Pubblicità si preoccupava che facesse risaltare il nome della ditta, magari reggendo appesi a un filo quattro palloncini con le lettere S, B, A, V.
Tutti erano presi dall’atmosfera alacre e cordiale che si espandeva per la città festosa e produttiva; nulla è più bello che sentire scorrere intorno il flusso dei beni materiali e insieme del bene che ognuno vuole agli altri; e questo, questo soprattutto – come ci ricorda il suono, firulí firulí, delle zampogne -, è ciò che conta. In magazzino, il bene – materiale e spirituale – passava per le mani di Marcovaldo in quanto merce da caricare e scaricare. E non solo caricando e scaricando egli prendeva parte alla festa generale, ma anche pensando che in fondo a quel labirinto di centinaia di migliaia di pacchi lo attendeva un pacco solo suo, preparatogli dall’Ufficio Relazioni Umane; e ancora di più facendo il conto di quanto gli spettava a fine mese tra «tredicesima mensilità » e «ore straordinarie ».
Con qui soldi, avrebbe potuto correre anche lui per i negozi, a comprare comprare comprare per regalare regalare regalare, come imponevano i più sinceri sentimenti suoi e gli interessi generali dell’industria e del commercio.
Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: – Ehi, tu! – disse a Marcovaldo. – Prova un po’ come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno. Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d’agrifoglio. La barba d’ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall’aria. La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini.
«Dapprincipio, – pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! »
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. - Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. – Mah… Non vedete come sono vestito?
- E come vuoi essere vestito? – disse Pietruccio. – Da Babbo Natale, no?
- E m’avete riconosciuto subito?
- Ci vuol tanto! Abbiamo riconosciuto anche il signor Sigismondo che era truccato meglio di te!
- E il cognato della portinaia!
- E il padre dei gemelli che stanno di fronte!
- E lo zio di Ernestina quella con le trecce!
- Tutti vestiti da Babbo Natale? – chiese Marcovaldo, e la delusione nella sua voce non era soltanto per la mancata sorpresa familiare, ma perché sentiva in qualche modo colpito il prestigio aziendale.
- Certo, tal quale come te, uffa, – risposero i bambini, – da Babbo Natale, al solito, con la barba finta, – e voltandogli le spalle, si rimisero a badare ai loro giochi.
Era capitato che agli Uffici Relazioni Pubbliche di molte ditte era venuta contemporaneamente la stessa idea; e avevano reclutato una gran quantità di persone, per lo più disoccupati, pensionati, ambulanti, per vestirli col pastrano rosso e la barba di bambagia.
I bambini dopo essersi divertiti le prime volte a riconoscere sotto quella mascheratura conoscenti e persone del quartiere, dopo un po’ ci avevano fatto l’abitudine e non ci badavano più.
Si sarebbe detto che il gioco cui erano intenti li appassionasse molto. S’erano radunati su un pianerottolo, seduti in cerchio.
- Si può sapere cosa state complottando? – chiese Marcovaldo.
- Lasciaci in pace, papà, dobbiamo preparare i regali.
- Regali per chi?
- Per un bambino povero. Dobbiamo cercare un bambino povero e fargli dei regali.
- Ma chi ve l’ha detto?
- C’è nel libro di lettura.
Marcovaldo stava per dire: «Siete voi i bambini poveri!», ma durante quella settimana s’era talmente persuaso a considerarsi un abitante del Paese della Cuccagna, dove tutti compravano e se la godevano e si facevano regali, che non gli pareva buona educazione parlare di povertà, e preferì dichiarare:
- Bambini poveri non ne esistono più!
S’alzò Michelino e chiese: – È per questo, papà, che non ci porti regali?
Marcovaldo si sentí stringere il cuore.
- Ora devo guadagnare degli straordinari, – disse in fretta, – e poi ve li porto.
- Li guadagni come? – chiese Filippetto.
- Portando dei regali, – fece Marcovaldo.
- A noi?
- No, ad altri.
- Perché non a noi? Faresti prima..
Marcovaldo cercò di spiegare: – Perché io non sono mica il Babbo Natale delle Relazioni Umane: io sono il Babbo Natale delle Relazioni Pubbliche. Avete capito?
- No.
- Pazienza. – Ma siccome voleva in qualche modo farsi perdonare d’esser venuto a mani vuote, pensò di prendersi Michelino e portarselo dietro nel suo giro di consegne.
- Se stai buono puoi venire a vedere tuo padre che porta i regali alla gente, – disse, inforcando la sella del motofurgoncino.
- Andiamo, forse troverò un bambino povero, – disse Michelino e saltò su, aggrappandosi alle spalle del padre.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che pilotavano camioncini o motofurgoncini o che aprivano le portiere dei negozi ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino all’automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un’aria concentrata e indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell’enorme macchinario delle Feste.
E Marcovaldo, tal quale come loro, correva da un indirizzo all’altro segnato sull’elenco, scendeva di sella, smistava i pacchi del furgoncino, ne prendeva uno, lo presentava a chi apriva la porta scandendo la frase:
- La Sbav augura Buon Natale e felice anno nuovo,- e prendeva la mancia.
Questa mancia poteva essere anche ragguardevole e Marcovaldo avrebbe potuto dirsi soddisfatto, ma qualcosa gli mancava. Ogni volta, prima di suonare a una porta, seguito da Michelino, pregustava la meraviglia di chi aprendo si sarebbe visto davanti Babbo Natale in persona; si aspettava feste, curiosità, gratitudine. E ogni volta era accolto come il postino che porta il giornale tutti i giorni.
Suonò alla porta di una casa lussuosa. Aperse una governante.
- Uh, ancora un altro pacco, da chi viene?
- La Sbav augura…
- Be’, portate qua, – e precedette il Babbo Natale per un corridoio tutto arazzi, tappeti e vasi di maiolica. Michelino, con tanto d’occhi, andava dietro al padre.
La governante aperse una porta a vetri. Entrarono in una sala dal soffitto alto alto, tanto che ci stava dentro un grande abete. Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse.
- Gianfranco, su, Gianfranco, – disse la governante, – hai visto che è tornato Babbo Natale con un altro regalo?
- Trecentododici, – sospirò il bambino – senz’alzare gli occhi dal libro. – Metta lí.
- È il trecentododicesimo regalo che arriva, – disse la governante. – Gianfranco è cosí bravo, tiene il conto, non ne perde uno, la sua gran passione è contare.
In punta di piedi Marcovaldo e Michelino lasciarono la casa.
- Papà, quel bambino è un bambino povero? – chiese Michelino.
Marcovaldo era intento a riordinare il carico del furgoncino e non rispose subito. Ma dopo un momento, s’affrettò a protestare:
- Povero? Che dici? Sai chi è suo padre? È il presidente dell’Unione Incremento Vendite Natalizie! Il commendator…
S’interruppe, perché non vedeva Michelino. Michelino, Michelino! Dove sei? Era sparito.
«Sta’ a vedere che ha visto passare un altro Babbo Natale, l’ha scambiato per me e gli è andato dietro… » Marcovaldo continuò il suo giro, ma era un po’ in pensiero e non vedeva l’ora di tornare a casa.
A casa, ritrovò Michelino insieme ai suoi fratelli, buono buono.
- Di’ un po’, tu: dove t’eri cacciato?
- A casa, a prendere i regali… Si, i regali per quel bambino povero…
- Eh! Chi?
- Quello che se ne stava cosi triste.. – quello della villa con l’albero di Natale…
- A lui? Ma che regali potevi fargli, tu a lui?
- Oh, li avevamo preparati bene… tre regali, involti in carta argentata.
Intervennero i fratellini. Siamo andati tutti insieme a portarglieli! Avessi visto come era contento!
- Figuriamoci! – disse Marcovaldo. – Aveva proprio bisogno dei vostri regali, per essere contento!
- Sí, sí dei nostri… È corso subito a strappare la carta per vedere cos’erano…
- E cos’erano?
- Il primo era un martello: quel martello grosso, tondo, di legno…
- E lui?
- Saltava dalla gioia! L’ha afferrato e ha cominciato a usarlo!
- Come?
- Ha spaccato tutti i giocattoli! E tutta la cristalleria! Poi ha preso il secondo regalo…
- Cos’era?
- Un tirasassi. Dovevi vederlo, che contentezza… Ha fracassato tutte le bolle di vetro dell’albero di Natale. Poi è passato ai lampadari…
- Basta, basta, non voglio più sentire! E… il terzo regalo?
- Non avevamo più niente da regalare, cosi abbiamo involto nella carta argentata un pacchetto di fiammiferi da cucina. È stato il regalo che l’ha fatto più felice. Diceva: « I fiammiferi non me li lasciano mai toccare! » Ha cominciato ad accenderli, e…
- E…?
- …ha dato fuoco a tutto!
Marcovaldo aveva le mani nei capelli. – Sono rovinato!
L’indomani, presentandosi in ditta, sentiva addensarsi la tempesta. Si rivesti da Babbo Natale, in fretta in fretta, caricò sul furgoncino i pacchi da consegnare, già meravigliato che nessuno gli avesse ancora detto niente, quando vide venire verso di lui tre capiufficio, quello delle Relazioni Pubbliche, quello della Pubblicità e quello dell’Ufficio Commerciale.
- Alt! – gli dissero, – scaricare tutto; subito!
«Ci siamo! » si disse Marcovaldo e già si vedeva licenziato.
- Presto! Bisogna sostituire i pacchi! – dissero i Capiufficio. – L’Unione Incremento Vendite Natalizie ha aperto una campagna per il lancio del Regalo Distruttivo!
- Cosi tutt’a un tratto… – commentò uno di loro. Avrebbero potuto pensarci prima…
- È stata una scoperta improvvisa del presidente, – spiegò un altro. – Pare che il suo bambino abbia ricevuto degli articoli-regalo modernissimi, credo giapponesi, e per la prima volta lo si è visto divertirsi…
- Quel che più conta, – aggiunse il terzo, – è che il Regalo Distruttivo serve a distruggere articoli d’ogni genere: quel che ci vuole per accelerare il ritmo dei consumi e ridare vivacità al mercato… Tutto in un tempo brevissimo e alla portata d’un bambino… Il presidente dell’Unione ha visto aprirsi un nuovo orizzonte, è ai sette cieli dell’entusiasmo…
- Ma questo bambino, – chiese Marcovaldo con un filo di voce, – ha distrutto veramente molta roba?
- Fare un calcolo, sia pur approssimativo, è difficile, dato che la casa è incendiata…
Marcovaldo tornò nella via illuminata come fosse notte, affollata di mamme e bambini e zii e nonni e pacchi e palloni e cavalli a dondolo e alberi di Natale e Babbi Natale e polli e tacchini e panettoni e bottiglie e zampognari e spazzacamini e venditrici di caldarroste che facevano saltare padellate di castagne sul tondo fornello nero ardente.
E la città sembrava più piccola, raccolta in un’ampolla luminosa, sepolta nel cuore buio d’un bosco, tra i tronchi centenari dei castagni e un infinito manto di neve. Da qualche parte del buio s’udiva l’ululo del lupo; i leprotti avevano una tana sepolta nella neve, nella calda terra rossa sotto uno strato di ricci di castagna.
Uscì un leprotto, bianco, sulla neve, mosse le orecchie, corse sotto la luna, ma era bianco e non lo si vedeva, come se non ci fosse. Solo le zampette lasciavano un’impronta leggera sulla neve, come foglioline di trifoglio. Neanche il lupo si vedeva, perché era nero e stava nel buio nero del bosco. Solo se apriva la bocca, si vedevano i denti bianchi e aguzzi.
C’era una linea in cui finiva il bosco tutto nero e cominciava la neve tutta bianca. Il leprotto correva di qua ed il lupo di là.
Il lupo vedeva sulla neve le impronte del leprotto e le inseguiva, ma tenendosi sempre sul nero, per non essere visto. Nel punto in cui le impronte si fermavano doveva esserci il leprotto, e il lupo usci dal nero, spalancò la gola rossa e i denti aguzzi, e morse il vento.
Il leprotto era poco più in là, invisibile; si strofinò un orecchio con una zampa, e scappò saltando.
È qua? È là? no, è un po’ più in là?
Si vedeva solo la distesa di neve bianca come questa pagina.
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