Anton Pavlovic Cechov nacque il 29 gennaio del 1860 a Tanganròg, in Ucraina, da una famiglia di umili origini. Il nonno era stato un servo della gleba e aveva comprato la propria libertà versano al padrone 3500 rubli; il padre, aveva aperto nel 1857 a Tanganròg una piccola drogheria. L'infanzia di Cechov si svolse in un clima dominato dalla severità e dalle manie del padre, uomo dispotico, che non lesinava le punizioni fisiche, ma che non era privo di sensibilità e fantasia; suonatore dilettante di violino, appassionato di canto religioso, aveva costituito con i figli un piccolo complesso polifonico che convocava nelle ore più impensate e che fu per tutti in famiglia un vero e proprio tormento. Anton Cechov frequentò a Tanganròg la scuola primaria e il ginnasio, fu assiduo al locale teatro di prosa, partecipò agli spettacoli allestiti dalla scuola interpretando la parte del governatore nell'Ispettore generale di Gogol. Nel 1876 la famiglia di Cechov si trasferì a Mosca, dove Anton Pavlovic la raggiunse nel 1879, una volta terminato il ginnasio. In quell'anno si iscrisse alla facoltà di medicina, donde uscì laureato nel 1884.
Assai pochi gli eventi esteriori della sua vita. Per qualche tempo, d'estate, frequentò con la famiglia la campagna di Voskresenk, non lontano da Mosca, dove prestò servizio all'ospedale. Nell'aprile del 1890 intraprese un lungo viaggio fino all'isola di Sachalin, dove studiò le condizioni di vita dei deportati che vi si trovavano, e di dove tornò a Mosca attraverso il Pacifico e l'Oceano Indiano; le sue impressioni di viaggio saranno raccolte nel 1895 in un volume - L'isola di Sachalin - che porterà all'attenzione della pubblica opinione il problema delle condizioni di vita nelle colonie penali. Nel 1891, nel 1894, nel 1897,e poi ancora nel 1900 e nel 1901 compì alcuni viaggi in Austria, in Italia, in Francia. Nel 1892 acquistò la tenuta di Melichovo, presso Mosca, dove rimarrà fino a che nel 1898 il pieno manifestarsi della tubercolosi non lo obbligherà a trasferirsi a Yalta, in Crimea. In quello stesso 1892 si adoperò attivamente contro la carestia e l'epidemia di colera che avevano colpito le regioni di Niznyi Novgorod e di Voronez. Nel 1901 sposò l'attrice Olga Knipper, conosciuta tre anni prima durante le prove del Gabbiano. Nel febbraio 1904, aggravandosi le sue condizioni, si recò nella stazione termale di Badenweiler, nella Selva Nera, dove morì il 15 luglio di quello stesso anno.
I Čechov nel 1874: Anton è il secondo in piedi a sinistra. A destra, uno zio con la moglie e il figlio
mercoledì 29 gennaio 2014
martedì 28 gennaio 2014
L'odore dell'inverno
L'odore dell'inverno, di Anton Cechov
Il tempo dapprincipio fu bello,
calmo. Schiamazzavano i
tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo
faceva un brusio, come se
soffiasse in una bottiglia vuota.
Passò a volo una beccaccia e
nell'aria con allegri rimbombi.
Ma quando nel bosco si fece
buio e soffiò da oriente un vento
freddo e penetrante, tutto tacque.
Sulle pozzanghere si allungarono
degli aghetti di ghiaccio.
Il bosco divenne squallido, solitario.
Si sentì l'odore dell'inverno.
Il tempo dapprincipio fu bello,
calmo. Schiamazzavano i
tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo
faceva un brusio, come se
soffiasse in una bottiglia vuota.
Passò a volo una beccaccia e
nell'aria con allegri rimbombi.
Ma quando nel bosco si fece
buio e soffiò da oriente un vento
freddo e penetrante, tutto tacque.
Sulle pozzanghere si allungarono
degli aghetti di ghiaccio.
Il bosco divenne squallido, solitario.
Si sentì l'odore dell'inverno.
A di città, progetto rosarnese di rigenerazione urbana
"A di città" è l’unico progetto
calabrese, realizzato a Rosarno, in lizza per la seconda edizione del premio
cheFARE, evento promosso dall’ associazione
doppiozero in collaborazione con una rete di fondazioni e imprese (da Ahref a
Il Sole 24 ore, da Tafter a Fondazione Fitzcarraldo, Enel ) che mira a far
emergere progetti innovativi nel settore culturale premiandoli con un
contributo di 100.000 euro.
Il progetto Adi città, nato grazie alla lodevole
iniziativa di un gruppo di ragazzi rosarnesi, ha come finalità quella di
trasformare la città in un laboratorio in cui realizzare nuovi spazi urbani,
stimolare la comunità a crescere partecipando in maniera attiva alla ricostruzione del proprio territorio
attraverso il dialogo con docenti
universitari, architetti e urbanisti, collettivi di design, artisti) per
riflettere ed attivarsi ai fini di
donare un nuovo volto alla città. Il cuore pulsante del progetto è
costituito dai workshop, i Cantieri Aperti, il progetto di Arte urbana
condivisa, laboratori di teatro – danza e di agricoltura solidale, attraverso i
quali viene sperimentato anche un diverso modello economico nel territorio.
C’è
tempo fino al 13 Marzo per votare il progetto “A di città” sulla piattaforma “Che Fare?: http// www.che-fare.com/ progetti- approvati/ a –
di – citta/
Coloro che vivono d'amore vivono d'eterno..
Dino Buzzati con la moglie Almerina Antoniazzi, di professione modella, sposata quasi in segreto l’8 dicembre 1966 nella chiesa milanese di San Gottardo in Corte: lei aveva 25 anni e lui 60.
«E’ stato un caso. Avevamo 35 anni di differenza, mi ha intenerito perché pensavo fosse gravemente malato. Era il 1962, il Corriere mi mandò a farmi fotografare davanti a una fontana dei giardini pubblici, quelli che oggi sono i Giardini Montanelli. La modella non si era presentata e così chiamarono me. E’ stata una folgorazione: camicia bianca e cravatta, l’ho riconosciuto subito. Dopo il lavoro mi ha invitato a colazione, mi ha chiesto il numero e il permesso di potermi telefonare. Gli ho detto sì. Ma non è nato subito l’amore. La magia credo sia accaduta a Torino, dopo qualche tempo (..) Ero arrivata di nascosto a Torinoalla presentazione di "Un amore". Dino era mezzo disperato. Non guardava nessuno, così sono scappata in albergo senza salutarlo. Mi sono presentata al giornale a Milano il mattino dopo. E’ lì che mi ha confessato di non essere malato, solo innamorato e sconvolto dal rapporto con Laide, il personaggio del libro. Anche se "l’amore è una malattia", diceva sempre. Delusa, gli ho chiesto di non cercarmi più. Fino a quando il mio amico Gianni Santuccio, attore con cui collaboravo, mi ha pregato di telefonargli. Cercavamo una commedia da recitare. L’ho chiamato. Dopo un quarto d’ora me lo sono ritrovato sotto casa, e da lì non mi ha più mollata».(Almerina Antoniazzi su Dino Buzzati)
«E’ stato un caso. Avevamo 35 anni di differenza, mi ha intenerito perché pensavo fosse gravemente malato. Era il 1962, il Corriere mi mandò a farmi fotografare davanti a una fontana dei giardini pubblici, quelli che oggi sono i Giardini Montanelli. La modella non si era presentata e così chiamarono me. E’ stata una folgorazione: camicia bianca e cravatta, l’ho riconosciuto subito. Dopo il lavoro mi ha invitato a colazione, mi ha chiesto il numero e il permesso di potermi telefonare. Gli ho detto sì. Ma non è nato subito l’amore. La magia credo sia accaduta a Torino, dopo qualche tempo (..) Ero arrivata di nascosto a Torinoalla presentazione di "Un amore". Dino era mezzo disperato. Non guardava nessuno, così sono scappata in albergo senza salutarlo. Mi sono presentata al giornale a Milano il mattino dopo. E’ lì che mi ha confessato di non essere malato, solo innamorato e sconvolto dal rapporto con Laide, il personaggio del libro. Anche se "l’amore è una malattia", diceva sempre. Delusa, gli ho chiesto di non cercarmi più. Fino a quando il mio amico Gianni Santuccio, attore con cui collaboravo, mi ha pregato di telefonargli. Cercavamo una commedia da recitare. L’ho chiamato. Dopo un quarto d’ora me lo sono ritrovato sotto casa, e da lì non mi ha più mollata».(Almerina Antoniazzi su Dino Buzzati)
La solitudine della sofferenza
"Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prendere su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l'amore è grande, e questo provoca la solitudine della
vita".
Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari
Azzurra Noemi Barbuto, Ali di burro
"Non so come sia successo. Ma credo che a un certo punto in me anima e corpo si siano messi l'una contro l'altro. La mia anima voleva prendere il sopravvento, emergere, uscire fuori dallo stomaco e farsi sentire, e l'unico modo che aveva per farlo era quello di distruggere il corpo, consumandolo. Ma il dolore del corpo è il dolore dell'anima e viceversa, perché essi sono come due facce della stessa medaglia, come due lembi di seta cuciti con lo stesso filo l'uno sull'altro. Io avrei voluto che il mio corpo fosse come la mia anima. Allora io sarei stata bellissima, leggera, delicata, pura. Così pura da far sorgere negli altri la paura di contaminarmi con un solo sguardo. Così nessuno mi avrebbe guardata, se non per ammirare quella purezza perfetta e lucente e, guardandomi, si sarebbe sentito e sarebbe stato migliore, cioè più buono. Allora io sarei stata come uno di quegli oggetti delicati che esistono solo per la loro rara bellezza e che ispirano cose belle ed elevate a chi li osserva, quegli oggetti protetti, chiusi nelle vetrine, quelle cose preziose e fragili, di vetro soffiato o di porcellana, che noi guardiamo incantati al di là di un vetro quando siamo piccoli, mentre qualcuno ci dice con tono dolce e fermo :"si guarda ma non si tocca".
Io stessa non volevo appartenere a questo mondo vuoto e disperato, troppo duro e troppo pesante per tutta quella leggerezza che mi sentivo dentro, nello stomaco.
Se il mondo era un macigno, io sarei stata una piuma che soavemente scende giù ballerina e non si posa".
- Azzurra Noemi Barbuto, Ali di burro
Io stessa non volevo appartenere a questo mondo vuoto e disperato, troppo duro e troppo pesante per tutta quella leggerezza che mi sentivo dentro, nello stomaco.
Se il mondo era un macigno, io sarei stata una piuma che soavemente scende giù ballerina e non si posa".
- Azzurra Noemi Barbuto, Ali di burro
lunedì 27 gennaio 2014
L'action painting di Jackson Pollock
"Non dipingo su un cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Ho bisogno dell'opposizione che mi dà una superficie dura. Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perchè in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente "dentro" al dipinto. Questo modo di procedere è simile a quello dei "Sand painters Indiani dell'ovest".
Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 - Long Island, 11 agosto 1956)
Il momento culminante dell'arte di Jackson Pollock è il decennio che intercorre tra il 1946 e il 1956, anno della morte improvvisa in un incidente automobilistico. Per raggiungere il massimo dell'espressione soggettiva e della gestualità, Pollock abbandona la stesura del colore con il pennello e si serve della cazzuola, di bastoncini o addirittura del "dripping" ( sgocciolamento): lascia sgocciolare il colore dal pennello sospeso e vibrante, o da un barattolo, sulla tela, non più appoggiata verticalmente al cavalletto ma adagiata a terra.
Le sue opere sono tele di grandi dimensioni, tali da permettere quanto più possibile la rapidità del gesto e quindi l'automatismo. Certo è quasi possibile raggiungere l'automatismo puro, dipingendo come in trance: qualunque direzione prenda il gesto, è pur sempre dovuta alla volontà dell'autore. Perfino la casualità dello sgocciolamento e della macchia deriva dal modo in cui l'artista muove il corpo e il braccio; importante è far sì che questa scelta sia istintiva e non preventivamente meditata. Nell'età moderna riaffiora continuamente la tesi romantica dell'arte come espressione dell'individuo, anzi del "genio" che crea liberamente, per ispirazione improvvisa, quasi senza rendersene conto:"quando sono nel mio dipinto - scrive Pollock- non sono più consapevole di quello che faccio".
Nascono così i suoi quadri, intrisi di linee e di colori, tumultuanti espressioni interiori , cui è del tutto estraneo il limite della cornice e ciò che essa ha sempre significato, ossia l'imposizione al dipinto di un'inquadratura che lo rende in pratica una veduta al di là di una "finestra". Questo tipo di opera si pone infatti con totale continuità oltre quei limiti anche grazie all'ampiezza della sua superficie, che elude la capacità di controllo dell'osservatore.
E' opportuno evidenziare che anche in Pollock, talvolta, le forme, pur apparendo inesistenti nella realtà esterna come viene percepita a occhio nudo, le appartengono; ciò è visibile quando se ne osservano alcuni particolari ingranditi per mezzo del microscopio, secondo in collegamento fra artista e mondo circostante che forse è inconscio, ma che è ugualmente interessante.
Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 - Long Island, 11 agosto 1956)
Il momento culminante dell'arte di Jackson Pollock è il decennio che intercorre tra il 1946 e il 1956, anno della morte improvvisa in un incidente automobilistico. Per raggiungere il massimo dell'espressione soggettiva e della gestualità, Pollock abbandona la stesura del colore con il pennello e si serve della cazzuola, di bastoncini o addirittura del "dripping" ( sgocciolamento): lascia sgocciolare il colore dal pennello sospeso e vibrante, o da un barattolo, sulla tela, non più appoggiata verticalmente al cavalletto ma adagiata a terra.
Le sue opere sono tele di grandi dimensioni, tali da permettere quanto più possibile la rapidità del gesto e quindi l'automatismo. Certo è quasi possibile raggiungere l'automatismo puro, dipingendo come in trance: qualunque direzione prenda il gesto, è pur sempre dovuta alla volontà dell'autore. Perfino la casualità dello sgocciolamento e della macchia deriva dal modo in cui l'artista muove il corpo e il braccio; importante è far sì che questa scelta sia istintiva e non preventivamente meditata. Nell'età moderna riaffiora continuamente la tesi romantica dell'arte come espressione dell'individuo, anzi del "genio" che crea liberamente, per ispirazione improvvisa, quasi senza rendersene conto:"quando sono nel mio dipinto - scrive Pollock- non sono più consapevole di quello che faccio".
Nascono così i suoi quadri, intrisi di linee e di colori, tumultuanti espressioni interiori , cui è del tutto estraneo il limite della cornice e ciò che essa ha sempre significato, ossia l'imposizione al dipinto di un'inquadratura che lo rende in pratica una veduta al di là di una "finestra". Questo tipo di opera si pone infatti con totale continuità oltre quei limiti anche grazie all'ampiezza della sua superficie, che elude la capacità di controllo dell'osservatore.
E' opportuno evidenziare che anche in Pollock, talvolta, le forme, pur apparendo inesistenti nella realtà esterna come viene percepita a occhio nudo, le appartengono; ciò è visibile quando se ne osservano alcuni particolari ingranditi per mezzo del microscopio, secondo in collegamento fra artista e mondo circostante che forse è inconscio, ma che è ugualmente interessante.
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