Quel giorno eravamo appena entrati quando ci hanno fatto uscire da scuola. Non ci hanno detto di preciso perchè, solo che era successa una cosa brutta. Noi non abbiamo capito, credo. Oppure, non abbiamo capito che una brutta cosa poteva capitare a noi. Sono venuti tanti genitori a prendere i loro bambini ma io sono tornato a piedi. Un mio amico mi ha detto che mi avrebbe telefonato, perciò sono andato subito a vedere la segreteria e la luce lampeggiante. C’erano cinque messaggi. Tutti suoi. Del mio papà.
Diceva sempre che stava bene e che tutto sarebbe finito bene, e non dovevamo preoccuparci. Dopo che ho ascoltato i messaggi è squillato il telefono. Erano le 10.26. Ho guardato il codice di identificazione e ho visto che era il suo cellulare. Non ho alzato la cornetta. Non ce la facevo. Continuava a suonare e io non riuscivo a muovermi. Volevo alzarla ma non ci riuscivo. E’ partita la segreteria. C’è stato un bip. Poi la voce di papà.
Ci sei? Ci sei? Ci sei?
Lui aveva bisogno di me e io non riuscivo ad alzare la cornetta. Non ci riuscivo. Non ce la facevo. Lo ha domandato undici volte. Lo so, perchè le ho contate. Perchè continuava a chiederlo? Aspettava che qualcuno tornasse a casa? E perchè non chiedeva ‘C’è qualcuno?’ ‘Ci sei?’ vuol dire una persona sola. A volte penso che sapeva che ero lì. In sottofondo si sente la gente che urla e piange. E poi rumore di vetri che si rompono, ed è anche per questo che mi chiedo se stavano saltando giù.
Ho calcolato il tempo del messaggio, ed è un minuto e ventisette secondi. Questo significa che è finito alle 10.28. Che è l’ora in cui la torre è caduta. Forse è così che è morto, allora.
Jonathan Safran Foer. Molto forte, incredibilmente vicino