I montanari
Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Nè cattedra, nè lavagna, nè banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava.
D'ogni libro c'era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po' più grande e insegnava.
Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch'io.
La vita era dura anche lassù. Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare.
Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finchè non aveva capito, gli altri non andavano avanti.
Non c'era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica.
Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perchè il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto.
Un professorone disse: «Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico...».
Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all'Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline.
Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: «La scuola sarà sempre meglio della merda».
Don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa
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