Di quei tremendi paesaggi
che l'occhio mortale mai vede
ancora stamane l'immagine
incerta e lontana m'assedia.
Nel sonno si mostra il miracolo!
Per un capriccio singolare
abolivo dallo spettacolo
la flora in forma regolare.
Fiero del mio genio pittorico
gustavo la monotonia
inebriante dei colori:
oro marmo acqua in armonia.
Babele di scale, d'arcate,
un palazzo ch'era infinito,
bacini dovunque, e cascate
sopra l'oro opaco e brunito.
E poi, cateratte pesanti,
come tendaggi di cristallo,
erano sospese, abbaglianti,
lungo muraglie di metallo.
Paludi stagnanti accerchiate
non da alberi ma da colonne,
dove naiadi smisurate
si specchiavano, come donne.
Scorreva un rivo d'acqua blu
tra rosate e virenti sponde,
per milioni di leghe e più
fino al lembo estremo del mondo.
Pietre preziose mai notate,
flutti magici, straordinarie
specchiere, ch'erano abbagliate
pur dal loro riverberare.
Indifferrenti, taciturni,
tanti Gange nel firmamento
versavano dalle loro urne
tesori in gorghi di diamante.
Architetto di favolosi
mondi, facevo a piacimento
sotto un tunnel di preziosi
trascorrere un oceano lento.
Tutto, anche il nero, era un fulgore,
era limpido, era iridato,
l'acqua incastonava la gloria
in un raggio cristallizzato.
Non c'erano astri né vestigia
di sole, neppure a occidente,
per dar luce a tali prodigi,
infocati per propria fonte.
Su questi nobili portenti
planava (amara novità:
tutto agli occhi, all'udito niente)
un silenzio d'eternità.
II.
Aperti gli occhi in un incendio,
l'orrore ho visto del mio tetto,
poi ho sentito, riavendomi,
l'amaro assillo maledetto.
La pendola dal tocco funebre
suonava mezzodì, brutale,
mentre il cielo versava tenebre
sul torpore del mondo uguale.
Charles Baudelaire, I fiori del male
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