sabato 14 giugno 2014

Salvatore Quasimodo

Ho tutta l’anima incrinata di brividi di stelle.
— Salvatore Quasimodo, Albore

Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968)

Un po’ di sole, 
una raggera d’angelo,
e poi la nebbia; e gli alberi,
e noi fatti d’aria al mattino.
- Salvatore Quasimodo

Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000)

“La felicità privata è la sola protezione che ci sia concessa contro l’angoscia della storia.”
— ATTILIO BERTOLUCCI, Camera da letto (frammento escluso)

Jorge Luis Borges

Chi abbraccia una donna è Adamo. La donna è Eva.
Tutto accade per la prima volta.
Ho visto una cosa bianca in cielo. Mi dicono che è la luna, ma
che posso fare con una parola e con una mitologia?
Gli alberi mi fanno poco paura. Sono così belli.
I tranquilli animali si avvicinano perché io gli dica il loro nome.
I libri della biblioteca sono senza lettere. Se li apro appaiono.
Sfogliando l’atlante progetto la forma della Sumatra.
Che accende un fiammifero al buio sta inventando il fuoco.
Nello specchio c’è un altro che spia.
Chi guarda il mare vede l’Inghilterra.
Chi pronuncia un verso di Liliencron partecipa alla battaglia.
Ho sognato Cartagine e le legioni che desolarono Cartagine.
Ho sognato la spada e la bilancia.
Sia lodato l’amore che non ha né possessore né posseduta, ma in cui entrambi si donano.
Sia lodato l’incubo che ci rivela che possiamo creare l’inferno.
Chi si bagna in un fiume si bagna nel Gange.
Chi guarda una clessidra vede la dissoluzione di un impero.
Chi maneggia un pugnale prevede la morte di Cesare.
Chi dorme è tutti gli uomini.
Ho visto nel deserto la giovane Sfinge appena scolpita.
Non c’è nulla di antico sotto il sole.
Tutto accade per la prima volta, ma in un modo eterno.
Chi legge le mie parole sta inventandole.

Jorge Luis Borges (La cifra, 1981)

Giacomo Leopardi ( Recanati, 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837)

La finestra da cui Giacomo Leopardi guardava Silvia...
A SILVIA 
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? Perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.

Anche peria tra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? Questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano


venerdì 13 giugno 2014

"Alla primavera, o delle favole antiche" , Giacomo Leopardi

Perchè i celesti danni 
ristori il sole, e perchè l'aure inferme 
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta 
Delle nubi la grave ombra s'avvalla; 
Credano il petto inerme 
Gli augelli al vento, e la diurna luce 
Novo d'amor desio, nova speranza 
Ne' penetrati boschi e fra le sciolte 
Pruine induca alle commosse belve; 
Forse alle stanche e nel dolor sepolte 
Umane menti riede 
La bella età, cui la sciagura e l'atra 
Face del ver consunse 
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti 
Di febo i raggi al misero non sono 
In sempiterno? ed anco, 
Primavera odorata, inspiri e tenti 
Questo gelido cor, questo ch'amara 
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? 

Vivi tu, vivi, o santa 
Natura? vivi e il dissueto orecchio 
Della materna voce il suono accoglie? 
Già di candide ninfe i rivi albergo, 
Placido albergo e specchio 
Furo i liquidi fonti. Arcane danze 
D'immortal piede i ruinosi gioghi 
Scossero e l'ardue selve (oggi romito 
Nido de' venti): e il pastorel ch'all'ombre 
Meridiane incerte ed al fiorito 
Margo adducea de' fiumi 
Le sitibonde agnelle, arguto carme 
Sonar d'agresti Pani 
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda 
Vide, e stupì, che non palese al guardo 
La faretrata Diva 
Scendea ne' caldi flutti, e dall'immonda 
Polve tergea della sanguigna caccia 
Il niveo lato e le verginee braccia. 

Vissero i fiori e l'erbe, 
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli 
Aure, le nubi e la titania lampa 
Fur dell'umana gente, allor che ignuda 
Te per le piagge e i colli, 
Ciprigna luce, alla deserta notte 
Con gli occhi intenti il viator seguendo, 
Te compagna alla via, te de' mortali 
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri 
Cittadini consorzi e le fatali 
Ire fuggendo e l'onte, 
Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime 
Selve remoto accolse, 
Viva fiamma agitar l'esangui vene, 
Spirar le foglie, e palpitar segreta 
Nel doloroso amplesso 
Dafne o la mesta Filli, o di Climene 
Pianger credè la sconsolata prole 
Quel che sommerse in Eridano il sole. 

Nè dell'umano affanno, 
Rigide balze, i luttuosi accenti 
Voi negletti ferìr mentre le vostre 
Paurose latebre Eco solinga, 
Non vano error de' venti, 
Ma di ninfa abitò misero spirto, 
Cui grave amor, cui duro fato escluse 
Delle tenere membra. Ella per grotte, 
Per nudi scogli e desolati alberghi, 
Le non ignote ambasce e l'alte e rotte 
Nostre querele al curvo 
Etra insegnava. E te d'umani eventi 
Disse la fama esperto, 
Musico augel che tra chiomato bosco 
Or vieni il rinascente anno cantando, 
E lamentar nell'alto 
Ozio de' campi, all'aer muto e fosco, 
Antichi danni e scellerato scorno, 
E d'ira e di pietà pallido il giorno. 

Ma non cognato al nostro 
Il gener tuo; quelle tue varie note 
Dolor non forma, e te di colpa ignudo, 
Men caro assai la bruna valle asconde. 
Ahi ahi, poscia che vote 
Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono 
Per l'atre nubi e le montagne errando, 
Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro 
In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano 
Il suol nativo, e di sua prole ignaro 
Le meste anime educa; 
Tu le cure infelici e i fati indegni 
Tu de' mortali ascolta, 
Vaga natura, e la favilla antica 
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi, 
E se de' nostri affanni 
Cosa veruna in ciel, se nell'aprica 
Terra s'alberga o nell'equoreo seno, 
Pietosa no, ma spettatrice almeno.

Fernando Pessoa

Di tutto restano tre cose:
la certezza
che stiamo sempre iniziando,
la certezza
che abbiamo bisogno di continuare,
la certezza
che saremo interrotti prima di finire.
Pertanto, dobbiamo fare:
dell’interruzione,
un nuovo cammino,
della caduta,
un passo di danza,
della paura,
una scala,
del sogno,
un ponte,
del bisogno,
un incontro.
 - Fernando Pessoa