Dopo di che c'erano stati giorni e notti celesti. Lui sapeva parole che nessun altro sapeva e gliele soffiava fra i capelli, nei due padiglioni di carne rosea, come un respiro recondito, quasi inudibile, che però dentro di lei cresceva subito in tuono e rombo d'amore. Era un paese di nuvole e fiori, la Tracia dove abitavano, e lei non ne ricordava nient'altro, nessuna sodaglia o radura o petraia, solo nuvole in corsa sulla sua fronte e manciate di petali, quando li strappava dal terreno con i pugni, nel momento del piacere. Giaceva con lui sotto un'ampia coppa di cielo, su un letto di foglie e di vento, mirando fra le ciglia in lacrime profili d'alberi vacillare, udendo un frangente lontano battere la scogliera, una cerva bramire nel sottobosco. Si asciugava gli occhi col dorso della mano, li riapriva. Lui glieli chiudeva con un dito e cantava. Ecco già si fa sera, ora negli orti l'oro dei vespri s'imbruna, la luna s'elargisce dai monti, palpita intirizzita fra le dita verdi dell'araucaria… Euridice, Euridice! E lei gli posava la guancia sul petto, vi origliava uno stormire di radici, e battiti, battiti lunghi d'un cuore da animale o di dio.
Gesualdo Bufalino, dalla raccolta di racconti "L' uomo invaso"