domenica 22 luglio 2018

Vivere è, insieme, accumulo e perdita

Vivere è, insieme, accumulo e perdita. Incontrarsi e dirsi addio. Volti, nomi, storie, sentimenti, persone. Ci vengono incontro, ci affiancano, ci accompagnano per un tratto di strada; poi se ne vanno, prendono altre vie, altri sentieri; a volte si fermano, e rimangono lì, e ci guardano allontanarci e diventare sempre più piccoli, sempre più distanti, mentre proseguiamo il cammino e spesso neppure ci voltiamo indietro, presi da mille pensieri, gli occhi e la mente intenti alla prossima meta. Ma ci lasciano, tutti, qualcosa. Un fardello piccolo o grande, prezioso sempre; ci lasciano il balsamo misterioso e dolcissimo dell’assenza.
L’assenza è una voce che non sentiremo più, eppure ci parlerà dal profondo del cuore nell’ora più buia, nel giorno più difficile. L’assenza è una mano che puoi stringere forte quando ogni altra mano ti sfuggirà e il coraggio parrà venirti meno. L’assenza è un ricordo che a chiunque – ma non a te – parrà banale, è una fotografia in bianco e nero, una frase che contiene un mondo, una cantilena imparata non sai più quando e dove, un sorriso, un’amarezza seppelliti nella memoria. E’ una sera d’estate con le nuvole alte nel cielo, antichi re delle fiabe che partono per l’esilio; è una strada ripercorsa tante volte, è il Natale come lo aspettavano i bambini, un giardino misterioso come la giungla nera, un pomeriggio giocato all’ombra di un cortile, mitologia quotidiana, lessico familiare, epopea domestica.L’assenza è il tempo che ti pareva inesauribile e invece non c’è più, il tempo per tutto ciò che non hai saputo dire, che non hai potuto fare; è il rimorso per un bacio mai dato, per una lettera non spedita, per le parole inutili e i silenzi crudeli. E’ l’amore che ti porti dentro, è quello che resta quando tutto finisce. Il rendiconto ultimo, il significato del vivere.
Gabriele Ferraris
(La Stampa, Torino Sette, 4 Giugno 2004)

Eugenio Montale

Non c'è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s'intersecano. E’ quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell'unico tempo. Ma in quell'attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

Eugenio Montale

Majakovskij

Chi ha ordinato ai giorni di luglieggiare?
— Vladimir Majakovskij, Uomo/Vita

Italo Calvino

I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.
— Italo Calvino, Le città invisibili

sabato 21 luglio 2018

Maria Kreyn

Maria Kreyn, Alone Together, olio su tela

Mariangela Gualtieri

Io non so se questa mia vita sta spianata su un
buco vuoto. Non so se il silenzio che indago
è intrecciato alla mia sostanza molle.
Io non so se quello che cerco e ho cercato e
cercherò, non so se quello che cerco
è un insulto a quel vuoto.
Non so se questo fatto di non avere
un paio d’ali sia premio o castigo,
io non so se la polveriera
della mia inquietudine sia un trono
su cui mi siedo minacciato, se la fuga che
a scatti regolari mi pungola, se quel
puerile sogno di fuga sia uno sgambetto
d’angelo, d’un buffone d’angelo che
mi vuole inciampare.

Io non so se l’amore sia una guerra o una tregua,
non so se l’abbandono d’amore
sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale. Io non so
che farmene di questi nemici che premono,
non so che farmene oggi di questo oggi
e me lo ciondolo fra le dita perplesse,
non so parlare quello che
è sentito nel profondo me, non so parlarlo
quell’essere che è qui presente fra le vite degli
altri.

Io non so spiegarmi l’imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d’amore, e non so vederlo che sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate, guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani.

Io non so forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so nient’altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene. Io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.

Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta in petto una gioia di figlio con la
madre. Non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei guerrieri
che si innamorano.

Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.
Io non so la canzone
che spensiera e non so soccorrervi
non so pur volendolo
con quella forza di cagna
che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro
sbando, io non so farvi da balsamo
io non so mettervi nel coraggio essenziale,
nello slancio, nel palpito.

Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento
volte.

Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
carnevalesca decadenza di saltimbanchi,
io non mi spiego la crocifissione
della grazia, e non mi spiego perché
mi trovo qui, in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perché stando ad occidente non si
ode quell’alleluia delle cose.
Io non so se in questa schiena
senza ali ci son grandi pianure da cui fare
il decollo, se in questa spina dorsale
ci sono istruzioni
per la manovra di decollo, se sono io la freccia
di questo arco della schiena, se sono io
arco e freccia, non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.

Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
È poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.



— Mariangela Gualtieri, Monologo del non so

Italo Calvino

Rinunciare alle cose è meno difficile di quel che si crede: tutto sta a cominciare. Una volta che sei riuscito a prescindere da qualcosa che credevi essenziale, t'accorgi che puoi fare a meno anche di qualcos'altro, poi ancora di molte altre cose.


— Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore