lunedì 29 luglio 2013

La notte (1961)

È davvero incredibile come non si ha più voglia di fingere, a un certo momento.

Giovanni Pontano (Marcello Mastroianni) e Lidia (Jeanne Moreau) ne "La notte",film del 1961 diretto da Michelangelo Antonioni

Titolo originaleLa notte
Paese di produzioneItalia/Francia
Anno1961
Durata115 min
ColoreB/N
Audiosonoro
Generedramma psicologico, sentimentale
RegiaMichelangelo Antonioni
SoggettoMichelangelo AntonioniEnnio FlaianoTonino Guerra
SceneggiaturaMichelangelo AntonioniEnnio FlaianoTonino Guerra
ProduttoreEmanuele Cassuto
FotografiaGianni Di Venanzo
MontaggioEraldo Da Roma
MusicheGiorgio Gaslini
ScenografiaPiero Zuffi
Interpreti e personaggi
Premi

Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira

"E' possibile che un libro, un romanzo metta a disagio perchè sembra troppo bello?Troppo, non perchè sospetto di voler piacere, ma proprio nel senso che si fa amare senza riserve”.
Lalla Romano su "Sostiene Pereira" di Antonio Tabucchi

Incipit:
Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d'estate. Una magnifica giornata d'estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell'imbarazzo di metter su la pagina culturale, perché il "Lisboa" aveva ormai una pagina culturale, e l'avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d'estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo.

Quale libro (o libri) state leggendo?


Giordano Bruno Guerri:Van Gogh era pazzo? Non lo credo affatto. E se proprio pazzo lo si vuol definire, la sua era una forma di pazzia molto speciale.

"Abbiamo solo le lettere di Vincent al fratello, e sono di grande passionalità che ci spiegano di lui molto più dei suoi quadri. Ho potuto, per la prima volta in questo libro  svolgere un lavoro di saggista potendo soddisfare questo mio desiderio di raccontare e interpretare una vita altrui non solo attraverso i documenti, come faccio normalmente con i miei libri storici, ma anche attraverso i miei sentimenti.
Mi sono messo in comunione con van Gogh, almeno ci ho provato, ho vissuto molto tempo circondato dai suoi quadri, purtroppo solo riproduzioni, per scrivere questa opera di sintesi, un’opera breve ma intensa, di bella lettura di cui vado abbastanza fiero. Ho voluto pubblicarlo con un editore diverso dal solito proprio per segnare e rimarcare che è un altro libro rispetto a quelli che ho scritto finora. Ho voluto approfondire la tragedia della sua vita, passata in miseria pur di non accettare compromessi. Si rassegnò a vivere con i pochi denari che gli passava suo fratello gallerista d’arte che gli comprò tutte le opere realizzate, perché in vita van Gogh non ha mai venduto un quadro.
Ha vissuto dimostrando una grande voglia di sacrificio e di dolore. Era capace di dormire su dei bastoni per non stare troppo comodo, mangiava pane e olive anche quando c’era dell’altro. Insomma era uno che voleva farsi del male. Anche il taglio dell’orecchio era una forma di auto sacrificio. Goghin è bello, alto chiacchierone, a differenza di van Gogh che è grifagno, brutto, tozzo e con gli occhi spiritati, gli ruba la bella Rachel la prostituta che lui aveva sempre frequentato, e soffre di questo tanto che si taglia l’orecchio. E’ un gesto di pazzia?”.

Autore: Giordano Bruno Guerri Titolo: La Follia. Vita e morte di Vincent Van Gogh Editore: BOMPIANI

Dall'epistolario di Vincent Van Gogh, contenente lettere indirizzate al fratello Theo tra il 1881 e il 1885


L'Aia, fine agosto 1882.
 Ieri, verso sera, nei boschi, ero intento a dipingere un terreno leggermente digradante, coperto di foglie di faggio secche, quasi polverizzate. Il terreno era di un colore rosso bruno, in alcuni tratti più chiaro e più scuro in altri, e queste sfumature erano maggiormente accentuate dalle ombre degli alberi che le striavano di strisce più o meno cupe, a volte nitide, a volte semisfocate. Il problema consisteva — e l'ho trovato molto difficile — nell'ottenere la giusta intensità di colore, nel rendere la forza, l'enorme compattezza, di quel terreno; e solo dipingendo mi sono accorto, per la prima volta, di quanta luce c'è ancora nel crepuscolo. Io dovevo cercare di conservarla, quella luce, rendendo al tempo stesso lo scintillio e la profondità di tutta quella gamma di colori.... Ti descrivo la natura, e non saprei dire nemmeno io sino a che punto sono riuscito a coglierne un riflesso, nel mio schizzo; tuttavia, so perfettamente che sono stato colpito da quell'armonia di verde, di rosso, di nero, di giallo, di turchino, di bruno e di grigio. Però, per dipingere questo, ho dovuto rompermi la schiena. Per il terreno sono stato costretto a consumare un tubetto e mezzo di bianco - benché il terreno fosse molto scuro — e, inoltre, del rosso, del giallo, dell'ocra scura, del nero, della terra di Siena, del bistro: e il risultato è un bruno rossastro che va tuttavia dal bistro a un rosso vino cupo, e perfino al livido, al biondo e al rossastro. Inoltre c'è ancora il fondo del terreno e una striscia sottile di erba fresca che imprigiona la luce e scintilla radiosamente: era difficilissimo a rendersi. Ecco, comunque, un abbozzo, a proposito del quale posso affermare, checché se ne dica, che ha un certo valore e che esprime qualcosa. Mi sono detto, mentre lo dipingevo: non mi muoverò di qui prima di essere riuscito a mettervi un riflesso dell'autunno, qualcosa di misterioso, una certa sincerità. Ma poiché l'effetto è di breve durata, ho dovuto lavorare in fretta e ho subito reso le figure con pochi colpi energici di pennello. Avevo notato che i tronchi giovani erano solidamente radicati nel terreno, e ho incominciato a dipingerli con il pennello; ma poiché i tocchi si confondevano a mano a mano con l'impasto del suolo, ho premuto allora direttamente il tubetto di colore sulla tela, per indicare le radici e i tronchi, e poi li ho rimodellati con l'aiuto del pennello. Sì, eccoli piantati, ora, diritti nella terra: ne spuntano fuori, ma sono saldamente radicati a essa. In un certo senso sono felice di non aver imparato a dipingere: forse avrei imparato a trascurare un effetto del genere. Adesso dico: no, ecco esattamente ciò che Voglio; se questo non va, pazienza, non va; ma voglio cercare di dipingerlo lo stesso, pur ignorando come superare l'osta
colo. Non saprei dirti come me la cavo. Mi sono sistemato con un foglio bianco davanti al punto che colpisce la mia attenzione, guardo quello che ho dinanzi agli occhi, e mi dico: questo foglio bianco deve diventare qualcosa; torno a casa insoddisfatto, lo metto da parte, e quando mi sono un po' riposato vado a guardarlo in preda a un'angoscia indefinibile. Sono sempre insoddisfatto, perché ho ancora troppo nitido nella mente il ricordo di quello stupendo angolo di natura per essere contento, ma questo non m'impedisce di ritrovare nella mia opera un'eco di ciò che mi aveva colpito, e mi accorgo che la natura mi ha detto qualcosa, mi ha parlato, e io ho trascritto in stenografia le sue parole. Benché alcune parole della mia stenografia siano indecifrabili, benché possano esservi errori o lacune, resta nondimeno qualcosa di ciò che la foresta, la spiaggia e le figure mi hanno detto; e non è il linguaggio addomesticato, convenzionale, derivato da una maniera studiata o da un sistema, ma è ispirato dalla natura stessa. Ecco un altro scarabocchio delle dune. C'erano laggiù piccoli arbusti le cui foglie, bianche da una parte e verde scuro dall'altra, stormiscono e brillano continuamente. Nello sfondo, cupi boschi cedui. Come vedi, consacro tutte le mie energie alla pittura e scavo il problema dei colori: finora me n'ero astenuto, e non lo rimpiango. Se non mi fossi dedicato al disegno, non sarei attratto da una figura che mi appare come una terracotta incompiuta, e non ne sarei colpito. In questo momento ho l'impressione di trovarmi in alto mare: devo consacrare alla pittura tutte le forze di cui posso disporre. Se vorrò dipingere su tavola o su tela, ci saranno spese: tutto costa caro, anche i colori sono cari, e la mia riserva si esaurisce presto. Ma pazienza, sono le difficoltà nelle quali incorrono tutti i pittori, e perciò dobbiamo soppesare i nostri mezzi. So tuttavia con certezza di possedere il senso dei colori e che questo senso si svilupperà sempre più, perché ho la pittura l'ho nel sangue. Non so dirti quanto ti sono grato del tuo aiuto così generoso e disinteressato. Ti penso spesso e faccio voti perché la mia opera diventi buona, interessante, virile, in modo che essa possa darti al più presto qualche soddisfazione.
 

domenica 28 luglio 2013

Oriana Fallaci - Inshallah


La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato. Ti sembra d’essere rimasto con un occhio solo, un orecchio solo, un polmone solo, un braccio solo, una gamba sola, il cervello dimezzato, e non fai che invocare la metà perduta di te stesso: colui o colei con cui ti sentivi intero. Nel farlo non ricordi nemmeno le sue colpe, i tormenti che ti inflisse, le sofferenze che ti impose. Il rimpianto ti consegna la memoria d’una persona pregevole anzi straordinaria, d’un tesoro unico al mondo, né serve a nulla dirsi che ciò è un’offesa alla logica, un insulto all’intelligenza, un masochismo. (In amore la logica non serve, l’intelligenza non giova e il masochismo raggiunge vette da psichiatria.) Poi, un pò per volta, ti passa. Magari senza che tu sia consapevole lo strazio si smorza, si dissolve, il vuoto diminuisce e il rifiuto di rassegnarti ad esso scompare. Ti rendi finalmente conto che l’oggetto del tuo amore morto non era né una persona pregevole anzi straordinaria, né un tesoro unico al mondo, lo sostituisci con un’altra metà o supposta metà di te stesso e per un certo periodo recuperi la tua interezza. Però sull’anima rimane uno sfregio che la imbruttisce, un livido nero che la deturpa e ti accorgi di non essere più quello o quella che eri prima del lutto. La tua energia si è infiacchita, la tua curiosità si è affievolita e la tua fiducia nel futuro s’è spenta perché hai scoperto d’aver sprecato un pezzo d’esistenza che nessuno ti rimborserà. Ecco perché, anche se un amore langue senza rimedio, lo curi e ti sforzi di guarirlo. Ecco perchè, anche se in stato di coma boccheggia, cerchi di rinviare l’istante in cui esalerà l’ultimo respiro: lo trattieni e in silenzio lo supplichi di vivere ancora un giorno, un’ora, un minuto. Ecco infine perché, anche quando smette di respirare, esiti a seppellirlo o addirittura tenti di resuscitarlo. Alzati Lazzaro e cammina.

Oriana Fallaci - Inshallah

L'amico di famiglia, film del 2006 diretto da Paolo Sorrentino

  • Innamorarmi di te è l'ultima cosa al mondo che mi doveva capitare. È una cosa orrenda e schifosa. Però è capitata. E io non voglio tirarmi indietro. Non voglio essere codarda ed avere rimpianti per tutto il resto della mia vita. Voglio essere coraggiosa. In fondo il coraggio è l'unica possibilità che abbiamo di cambiare le nostre vite quando non ci piacciono più. I rimpianti, invece, i rimpianti ci fanno morire tristi e soli. (Rosalba- Laura Chiatti a Geremia - Giacomo Rizzo)