venerdì 9 settembre 2016

Maurizio Marino

Caro Cesare Pavese,
sono il professor Vittorini Leonardo. E dedico a te questo gesto di salvezza a cui ho assistito oggi, a te che invece hai pizzicato la corda in culo al mondo e la corda in culo al mondo ha risuonato cupa il verso nero del mare lento. Te la sei rotta in due, la schiena, Pavese, a tradurre gli americani: c’hai vinto il premio di un viaggio al confino che ti saresti ben risparmiato.
Le langhe che suono hanno, che suono fanno? Le langhe lo battono il tempo del mare nero, del male dentro? Al confino, al confino. Coi libri dentro alla giacca hai alzato gli occhi che ti erano rimasti tristi nonostante il nome fiero. Non so se ti ricordi di Tito tra i Cesari il più bello. Non so se ti ricordi di Svetonio che scrive la vita di Tito. E Tito che fa? Rivive, sopravanza. Ti riscrivo per tenerti in vita. Ci resta la speranza d’un fiato di parole. Oltre la porta c’è una stanza dove s’annida il nero. Lontano resta il bisbiglio di uomini in dialetto e passi lenti. Li senti, Cesare Pavese?
C’hai acceso gli orizzonti coi tuoi racconti, e le parole in fila ai versi lunghi. Eri a Brancaleone per un errore. Ti sei trafitto gli occhi con tutto quel nero davanti. Tanto che manco lo guardavi, il mare. Te ne sei andato dal barbaglio accecante delle Langhe, dai bianchi soffocanti delle nebbie per aver parlato con Ginzburg, con Spinelli e il regime t’ha scoperto. In punizione, fino a Brancaleone. Il confine è qui: pullula di mare. Di notte si sveste e cresce con l’amore della luna. Senza falò, per pudore. Così nessuno ci vede.
Te ne sei andato, Cesare Pavese, insieme a quelli come te: il nero s’impiglia sempre dentro a un non so che, Pavese. Il millenovecentotrentacinque, Cesare, è stato lungo e lento, a Brancaleone. A partire dall’estate e forse non è più finito. Hai letto, quell’anno? hai scritto, Pavese? quanto t’è durato? i calabresi c’hanno provato ad allietartelo. Ma niente.

Il tedio prende sempre il sopravvento, Cesare. Lo spleen t’ha arrovellato. Ha bruciato fino al condono. E te ne sei tornato alla tua terra. Un tuo amico, Davide Lajolo, t’ha ricordato nel Vizio assurdo. C’hai portato a spasso con Dos Passos, Pavese. Niente pettegolezzi, come c’hai lasciato scritto sull’ultimo pezzetto di carta. Quella notte d’agosto del millenovecentocinquanta. Una bustina di sonnifero di troppo, per terra.


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